Cosa aspettarsi dalla settimana di mercato che si apre oggi? Ormai, la logica imperante è quella del rabdomante: si passa da -9% a +9% nell’arco di 24 ore, senza soluzione di continuità e tutto unicamente legato alle mosse delle Banche centrali. Nessun principio di valutazione vecchio stile, vedi il mark-to-market o la price discovery, vale più. Si attende che gli algoritmi facciano il loro corso, operando come bravi cani di Pavlov in base a parole chiave o livelli predeterminati di VaR e poi ci si siede, mani nei capelli, in attesa che Jerome Powell rilasci la dichiarazione salva-mondo della giornata.
Attenzione, però. Prima non ho citato il range -9%/+9% a caso. L’ho fatto in base a un precedente storico emerso nel fine settimana, quando gli analisti si sono messi giustamente a fare il loro lavoro: ovvero, le pulci allo swing folle registrato in Europa e negli Usa nelle giornate di giovedì e venerdì scorsi. Cosa ne è emerso? Ce lo raccontano questi due grafici, il primo dei quali dimostra come l’unica volta in cui il Dow Jones ha vissuto uno scostamento di quel genere in due giornate di trading che fossero consecutive, è stato nell’arco temporale delle tre sessioni che si conclusero il 30 ottobre del 1929.
Il secondo grafico, va da sé, non mi pare abbia necessità di particolari commenti da parte del sottoscritto. Se non uno: al di là dell’imbarazzante (e un po’ inquietante) perfetta correlazione in atto, guardate l’andamento che dovrebbe attenderci da qui all’estate, se il precedente di trend dovesse essere rispettato. Rimbalzo, altra caduta e poi un rimbalzo più sostenuto. Dopo, il tracollo.
Ora, provate a contestualizzare questo scenario di pattern dei corsi con la prospettiva temporale politica che abbiamo di fronte, rispetto ovviamente all’avvenimento di maggiore importanza dell’anno: 3 novembre, elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Come arriverà Wall Street a quell’appuntamento, ammesso che la Fed continui a tenerla artificialmente in vita a colpi di decine di miliardi di liquidità quotidiana? La risposta, sempre volendo tener fede al precedente scomodo del periodo 1928-1932, appare chiara. Ma davvero l’America può permettersi un’elezione di importanza fondamentale come quella che abbiamo alle porte con il mercato in tonfo assoluto?
Volendo lasciarsi andare a elucubrazioni, paradossalmente potrebbe essere quasi conveniente. Se, ad esempio, si volesse dar vita a un’operazione di stimolo di lungo termine, addirittura di respiro più ampio rispetto a un mero Qe come quello in atto, sarebbe la logica perfetta. Anche perché garantirebbe un coté politico che appare un dividendo: scaricare su quell’accidente della storia chiamato “amministrazione Trump” la responsabilità di un tracollo verticale, frutto non di un sistema manipolato e basato sul nulla, ma dell’azzardo di un dilettante allo sbaraglio che ha giocato con il deficit, l’isolazionismo, le guerre commerciali e l’aiuto unilaterale alle corporations tramite lo shock fiscale della primavera 2018.
Insomma, partendo dal presupposto che il mercato fosse comunque giunto a un livello di bolla insostenibile e che quindi questa andasse comunque sgonfiata, pena il rischio di un’esplosione, tanto vale mettere a frutto il periodo nero che si a di fronte.
E che qualcosa nell’aria cominci a circolare, lo dimostrano questi altri due grafici. Ricorderete come più di una volta io abbia sottolineato il trend di vendita di titoli delle aziende per cui lavoravano degli insiders statunitensi. Un proxy chiaro, perché si parla della seconda metà del 2019, quando la narrativa era ancora quella del mercato rialzista del secolo: quindi, se chi conosce i conti e lo stato di salute reale delle aziende vende, non può essere solo per paura e voglia di monetizzare. Forse sapeva che lo schema Ponzi stava arrivando al naturale capolinea. O, quantomeno, a una pausa forzata.
Ed ecco invece che, nel pieno di tonfi delle scorse due settimane, gli stessi insiders delle multinazionali Usa hanno comprato con il badile i titoli dello loro aziende che venivano scaricati dagli altri, garantendosi ovviamente un forte sconto rispetto al prezzo cui le avevano vendute solo pochi mesi prima. Una simile ratio acquisti/vendite degli insiders a favore dei primi sulle seconde, infatti, non si vedeva dal 2011, altro periodo di grande incertezza generale a causa della crisi dei debiti sovrani che stava per far saltare l’eurozona. Perché ora? Quasi certamente, si prezza appunto una Fed che, per volontà o per obbligo, andrà anche oltre al diluvio di liquidità messo in campo dallo scorso settembre e divenuto addirittura folle nelle ultime 72 ore di mercato. Tanto più che a nessuno è sfuggito come venerdì scorso Donald Trump abbia sentito il bisogno di rimarcare come sia suo diritto quello di licenziare il capo della Federal Reserve, se lo trovasse inadeguato.
Ma attenzione un’altra volta, perché il secondo grafico ci mostra come anche gli insiders sbaglino il timing, a volte. Come, ad esempio, quando si lanciarono in acquisti un po’ troppo anticipati nel corso degli ultimi due bear markets. Ma come fatto notare prima, giova ricordare che livelli di ratio fra acquisti e vendite come quelli della scorsa settimana si registrarono solo a luglio 2011, prima di un rally del 10% nei due trimestri successivi e nel dicembre 2018, anticipando addirittura una corsa poi durata per tutto il 2019 e che portò a un aumento del 40%. Insomma, se anche qualche volta sbagliano i tempi di entrata, difficilmente gli insiders si fanno male. Anzi, sono comunque maestri nel passare il cerino in mano al “parco buoi”, facendoselo oltretutto pagare come fosse un lanciafiamme.
Come muoversi, insomma? A mio avviso, c’è un’unica regola: cautela. Massima. Soprattutto in questo momento, quando temo saranno in molti a volervi vendere l’occasione del secolo, magari sbandierando l’ormai liso stendardo del comprare sui minimi. E il mio ragionamento si basa su un dato sostanziale: nessun precedente che possa far riferimento al proxy degli insiders era comunque contestualizzato in un caos destabilizzante come quello attuale, con gli Usa in campagna elettorale, l’Europa in pre-recessione e in quarantena generalizzata e con la variabile coronavirus a impattare sugli equilibri economici e commerciali macro, cinesi in testa. È tempo per professionisti, non per apprendisti stregoni. Anche perché, lasciatemi concludere con un fatto che trovo molto esemplificativo del rischio di perdita di controllo che la situazione statunitense sta patendo. Guardate questo ultimo grafico, ci mostra il montante panico dell’opinione pubblica statunitense cominciato dopo il crollo di lunedì 9 marzo, innescato da un circuit breaker nello Standard&Poor’s 500 a seguito di un calo del 7%. Ci mostra le ricerca principali fatte con Google, per parola chiave: Black Monday, Vix, NYSE circuit breakers e What was Black Monday erano i trend topics. Panico generalizzato, prima ancora che la questione coronavirus diventasse un’emergenza nazionale su stessa proclamazione della Casa Bianca, come accaduto venerdì scorso.
Risultato? Come riportava ieri il New York Times, le filiali della Midtown Manhattan Bank della 52ma Strada e di Park Avenue si sono ritrovate a secco di biglietti da 100 dollari per un controvalore di 50mila dollari fra giovedì e venerdì scorsi, terminati a causa di file interminabili di cittadini che prelevavano dai bancomat. A New York. Anzi, nel cuore chic di New York. Allarme limitato, per carità, visto che sabato nel pomeriggio tutte le postazioni erano state rifornite, ma, ripeto, anche questa sorta di mini bank-run sui bancomat è avvenuta prima che il panico da coronavirus prendesse ufficialmente alla gola anche l’America.
Morale della favola? Maneggiate con cura, signori. Questi tempi senza precedenti che stiamo vivendo sono come fiale di nitroglicerina. O bombe a mano senza spoletta.