L’eredità di due secoli e più di pensiero strategico non è bastata a proteggere le nostre società da pericoli imprevisti. Cinquant’anni di pace e di apparente successo globale delle liberal-democrazie hanno portato al sonno del pensiero strategico, nel cui torpore eravamo ancora assorti quando è arrivato il nemico invisibile del coronavirus, sotto forma di una pandemia che ha definitivamente abbattuto quello che restava del sistema internazionale.
Come una grande livella geopolitica ha messo in riga tutti: potenze emergenti e potenze in declino, Stati ricchi e Stati poveri, democratici e totalitari, repressivi e tolleranti. Tutti appaiono dover pagare un prezzo elevatissimo in uno scenario dove tutti perderanno tanto. Ogni governo appare in enorme affanno e difficoltà di fronte alla prima crisi pandemica globale e al crollo delle certezze del mondo globalizzato.
Stati che hanno investito cifre impressionanti per costruire la propria egemonia geopolitica e per proteggersi da minacce di ogni tipologia, che hanno combattuto le guerre del passato, che hanno sviluppato nuove forme di conflittualità asimmetrica e che si stanno preparando a quelle iper-tecnologiche e ibride del futuro, potrebbero oggi vacillare sotto i colpi del nemico invisibile covid-19. Un pericolo che non si sostituisce alle minacce classiche alla sicurezza nazionale, ma che ad esse si sovrappone come fattore debilitante dei centri di funzionamento degli Stati e delle società, rendendole incapaci di preservare il loro benessere economico, minandone la sicurezza interna e affievolendone la capacità di combattere e di difendersi.
La partita contro il covid-19 è dunque una guerra con due fronti, uno interno e l’altro esterno. Quello interno è la protezione della homeland security sia dagli effetti diretti del morbo che da quelli indiretti, delle sommosse sociali, politiche o etniche che la cattiva gestione dell’emergenza possono attivare. Il secondo fronte, il meno apparente ma probabilmente quello che produrrà cambiamenti qualitativamente importanti, è quello di una riacutizzata corsa per il potere internazionale che, in una stagione come questa che si sta aprendo, offre spazi strategici di manovra per molte potenze revisioniste.
Per questi motivi i vari Paesi del mondo stanno reagendo in maniera piuttosto diversificata, attuando comportamenti che poco hanno a che fare con l’evoluzione clinica dell’epidemia e molto con una gestione politica delle sue conseguenze. In generale, tra tutti gli esecutivi appare comunque esservi una grande confusione sulle politiche da prendere. Numerosi governi hanno esitato troppo a lungo prima di prendere provvedimenti, poi ne hanno presi di inefficaci, per poi inasprirli, ma quasi sempre in ritardo rispetto alle necessità. Il virus, che apparentemente non può essere sconfitto, va gestito. Quasi tutti i governi hanno scelto di incassare il colpo restando in piedi, salvo poi ricredersi nei giorni successivi ai primi morti, almeno di quelli che non sono stati in grado di nascondere.
In questa fase nessun Paese ha scelto la sua via definitiva. Come Carla Bruni, tutti sono pronti a ridere del virus per poi dover chiedere pubblicamente scusa. La verità è che nessun governo sta realmente scegliendo, piuttosto sta subendo. In questa strana guerra è il virus che ha l’iniziativa e decide chi e dove attaccare. Chi avrebbe mai pensato poche settimane fa che Cina, Iran, Corea del Sud e Italia potessero essere quattro Paesi accomunati da uno stesso pericolo così insidioso e oscuro?
È chiaro che in questo contesto rivoluzionato della sicurezza internazionale, che ha preso il sopravvento sulla politica e sull’economia, ogni Paese sta scegliendo non le strategie migliori, ma solamente quelle disponibili. Tutti i governi stanno azzardando e assumendosi rischi elevatissimi, nessuno calcolato. E spesso non c’è neanche una strategia. È solo tattica. Lotta corpo a corpo con il virus che è entrato nelle nostre trincee e ci ha colpito alle spalle.
Sono queste le circostanze in cui i popoli fanno appello a tutte le riserve della loro storia, alle tracce lasciate nel proprio Dna da ogni guerra passata, vinta o perduta. Non ci sono strateghi a tavolino. Non c’è Clausewitz, né Sun Tzu, né Napoleone. Ci sono i sentimenti primitivi e ancestrali che stanno prendendo il sopravvento. Non sono ancora evidenti, perché celati dalla retorica di politici che, anche se inadatti – a qualunque latitudine –, sono avvezzi a fare largo uso di propaganda e abusare dello strumento mediatico.
Passata la fase dello smarrimento e della reazione istintiva, tenuta botta ai primi colpi del virus e messo in sicurezza il sistema Paese, i governi strategicamente più maturi attueranno un complesso processo di rivisitazione della propria sicurezza nazionale, ridefinendola in base a un’inedita miscela dei fattori che lo compongono. Nel fare questo presteranno attenzione al momento dell’epidemia in cui si trovano e ad eventuali gap con i propri competitor. La nuova asimmetria sarà quella di lasciare meno risorse possibili impegnate alla lotta contro il virus per creare un vantaggio strategico sui propri avversari.
Immaginando un non breve decorso di questa rivoluzione politica internazionale, appare quasi certo che quando l’emergenza sarà terminata i rapporti di forza internazionali e le alleanze saranno profondamente ridisegnate a seconda di come e quando ciascun paese uscirà dalla crisi. Resteranno tracce profonde di chi lo avrà aiutato e di chi avrà cercato di approfittare delle debolezze prodotte dall’impatto del virus.
Già da adesso appaiono esserci Paesi, come la Gran Bretagna, la Cina, forse la Francia che appaiono più interessati a posizionarsi meglio geo-politicamente per il day after che a combattere efficacemente il virus. Fatalismo, cinismo, specificità culturali. Quali che siano le cause, bisognerà tenerne conto. Per quanto riguarda l’Europa, essa si sta giocando la sua sopravvivenza politica, più di ogni altro governo.
Anche se può apparire folle pensare ad altro rispetto alla necessità di sconfiggere il virus, non dimentichiamo che la lotta contro la diffusione del covid-19 non è purtroppo l’unico fronte su cui bisogna combattere. Questo vale in particolare per l’Italia, Paese già indebolito e oggetto di mire bramose, da Nord come da Est. I beni strategici da tutelare sono tanti e complessi. E come in tutte le guerre e i grandi sconvolgimenti socio-economici, non è possibile separare il fronte interno da quello internazionale. Anche in questa logica vanno dosati gli interventi e le risorse a disposizione in quella che sarà una partita lunga e complessa, non solo contro il virus. Esserci entrati prima di altri non sarà necessariamente un danno, se sapremo uscirne rapidamente. Per questo serve un governo di unità nazionale, che traguardi il Paese fuori dall’emergenza e che vada al voto immediatamente dopo.