Mascherine e desiderio di Dio, l’Italia può (e deve) cambiare

Cosa ci sta dicendo l'emergenza coronavirus? Che la scienza non è in grado di dare le risposte, la politica è impantanata nella burocrazia. Resta la preghiera

L’epidemia del coronavirus, dopo averci costretto a un progressivo silenzio nelle analisi, ci propone, di fatto, diverse riflessioni. Prenderne atto vuol dire apprendere dalle circostanze e sfruttare ciò che questa situazione di emergenza ci permette di capire su noi stessi e sulla società nella quale abitiamo.

La prima riflessione ci proviene dal divario insostenibile tra l’emergenza sanitaria in Lombardia – dove mancano i posti letto, il personale è insufficiente e costretto a ritmi di lavoro da vera e propria “prima linea” – e i tempi dei provvedimenti governativi.



La foto dell’infermiera che sviene per la stanchezza davanti al proprio computer e quelle delle decine di volontari sfiancati da ore di lavoro senza sosta costituiscono l’immagine sconfortante di una realtà che non ha solo bisogno di “risorse”, come recita il linguaggio della politica, ma ha la necessità di vedere, materialmente,  giovani medici in arrivo, macchinari per le sale di rianimazione nel piazzale dell’ospedale pronti a essere scaricati e resi operativi, spazi per attrezzare i nuovi e indispensabili posti letto. In pratica, la rapidità operativa costituisce un criterio preliminare e inaggirabile per ogni provvedimento.



Tra una decisione del Consiglio dei ministri e l’arrivo dei macchinari e di tutto ciò che è necessario passa un lasso di tempo che può avere risultati fatali. Il nostro sistema decisionale, o se si preferisce la nostra catena di responsabilità e controlli, è costellata da passaggi burocratici che, allontanando le decisioni politiche, anche le migliori, dalla loro realizzazione, apre la strada a esiti incerti.

Quando tutta questa tragedia sarà terminata, avremo bisogno di un’Italia diversa, dove la differenza non sarà data dal colore politico di chi agisce, ma dalla sua capacità di modificare profondamente un sistema decisionale che limita l’efficacia di ogni provvedimento.



Una seconda riflessione che emerge è data dalla mancanza di “parole chiare”. La scienza parla il suo linguaggio e la moltiplicazione delle interviste e dei pareri, incalzate dai ritmi dell’informazione sui media, sfocia spesso, inevitabilmente, in semplificazioni affrettate che la scatola mediatica contribuisce ad amplificare, ingenerando confusioni e fraintendimenti.

Uscendo dal palazzo della politica ed entrando in quello della scienza, telecamere e reporter usano, di fatto, lo stesso metodo, dimenticandosi come un uomo di scienza non comunichi come un politico. La scienza vive di “distinguo” che la comunicazione mediatica non tollera ed è facile constatare come l’universo scientifico, spinto all’angolo dai ritmi delle dichiarazioni televisive, finisca per manifestare differenze non superficiali.

La stessa scelta inglese di lasciare che il virus compia la sua selezione darwiniana, poi in parte rientrata ma ripresa dall’Olanda, costituisce un esempio di come si sia in presenza di scuole di pensiero diverse. Se confidiamo nella scienza, come è giusto che sia, ci dimentichiamo con troppa facilità come questa si muova dentro i tempi della ricerca e, operando nella dimensione della probabilità, non abbia risposte “chiavi in mano” come siamo abituati a ricevere, in particolare dal mercato farmaceutico che normalmente frequentiamo.

Una terza riflessione risiede invece in un’area completamente diversa, quella dell’universo religioso. È l’immagine plastica del vescovo di Milano che sale sul terrazzo del Duomo per pregare alla “Bela Madunina”. È quella di Papa Francesco in preghiera, dinanzi al crocifisso della chiesa di San Marcello al Corso, portato in processione dai romani in occasione della peste del 1522, e soprattutto la sua dichiarazione di avere esplicitamente chiesto al Signore di “fermare l’epidemia”, come è stato fatto cinque secoli fa. Sono due appelli al sacro in piena consonanza con la gravità della situazione.

In questo senso anche la scelta di lasciare le chiese aperte a Roma, limitandosi a vietare le celebrazioni e, più in generale, le riunioni di qualsiasi genere, dà la dimensione di un’invocazione religiosa tanto più inattesa quanto più contemporanea a un universo societario che non sembra ancora aver compreso la pericolosità del contagio e gli esiti che questo può comportare.

Per chi ha piena coscienza della gravità della situazione queste chiese aperte manifestano un’indispensabilità della preghiera che non è meno impellente dei generi alimentari. Si tratta di manifestare il proprio dolore nel luogo principale dell’accoglienza, nel luogo antropologico per eccellenza dell’accoglienza: quello della casa del Padre.

Così, quando tutto questo sarà terminato e ricomincerà la festa permanente della “società euforica”, vorrei tanto che ci ricordassimo di questi insegnamenti che le circostanze ci hanno indicato: una sanità eroica da ammirare, un sistema organizzativo-decisionale da liquidare, una scienza da riconoscere, un desiderio di Dio da custodire.

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