Quando il prete non è più il popolo e il rito provoca lo sbadiglio, questo è il momento della strega. Lo dice Jules Michelet, nella sua Sorcière, testo straordinario tra i tanti che Michelet ha prodotto sul finir dell’Ottocento.
Figura affascinante che con andamento alterno ha interessato varie epoche storiche, fin dall’inizio della civiltà umana, mettendo in campo una delle sue caratteristiche salienti: la mutazione, il magico volo – come aveva individuato Luciano Parinetto (La traversata delle streghe) – attraverso i nomi e i luoghi e, si potrebbe aggiungere, attraverso la mentalità. Così, blandita, acclamata, braccata e bruciata, la strega sembra porsi all’interno di ogni epoca storica come una sorta di pietra d’inciampo, capace di assumere ogni forma di linguaggio, ogni apparenza simbolica, ogni metamorfosi etica. In lei, essere femmineo di religione cagliata, le dinamiche equivoche di ogni società che si struttura e si destruttura con andamento sinusoidale, acquisiscono e perdono, nell’alternanza della luce e dell’ombra, frammenti d’umanità. Ed eccola, annidata nella spelonca, la strega sa attendere, continuando indaffarata a cuocere intrugli, a coltivare il suo orto farmaceutico, a inventar parole nuove, a camminare nella storia in senso inverso, così come il contrario è il codice identificativo del suo proprio universo semantico.
Gli illuminati ritenevano che sarebbe bastato togliere al mondo il suo carattere magico e teologico, e la strega sarebbe scomparsa con il suo signore cornuto. Fede troppo ottimistica nella ragione. Perché non basta togliere l’aura della superstizione (e ovviamente, per loro, della religione) per far scomparire la strega. Essa non appartiene al mondo degli spiriti. Essa appartiene alla carne dell’umanità. È il suo urlo, il suo contorcimento, il suo mal di pancia, la sua evacuazione, la sua risata sardonica. Essa, nel suo stesso esistere in quanto persona e in quanto pensiero, butta in faccia l’indicibile. E la sua gerla simbolica è sempre piena di specchi concavi, in cui il nostro essere nel tempo riflette ogni fragilità, ogni difetto, ogni ambiguità.
La strega, per parafrasare Roland Barthes, è non solo un ultra-sesso, ma è anche un ultra-corpo e – dunque – un ultra-mondo, in cui confluiscono gli infiniti, anche se ripetitivi, significati del nostro vivere sociale.
Tirata per la gonnaccia dall’industria dello spettacolo, essa ha calcato i red carpet di mezzo mondo, accettando di farsi ridicola. Tanto che gliene frega? Oppure eccola con le mani alzate e le dita a rombo vaginale, divenire l’alter ego fondativo del femminismo incipiente: “tremate, tremate, le streghe son tornate!”. Gli anni Sessanta e Settanta del Novecento sono stati uno straordinario e fecondo periodo di protagonismo stregonesco. Balli e canti riconducevano una generazione imberbe ed eccitata al sabba, in cui, con il bacio allo sfintere del diavolo, ci si poteva illudere d’aver finalmente liberato il corpo dall’anima, e soprattutto d’aver liberato il corpo da se stesso. Protettrice apparente di ogni corporeità svelata e innalzata al rango di Dio, d’ogni corporeità al contrario (potremmo dunque parlare non solo di controcultura, ma anche di controcorporeità), d’ogni corporeità sessificata, la strega in realtà si presenta come la grande lettrice della dissoluzione del corpo. Ah, l’avessimo capito cinquant’anni fa! Che proprio nel momento in cui facevamo a brandelli ogni copertura tacciata di ipocrisia, esponevamo il corpo – dunque, per dirla con Le Goff, la nostra storia e la nostra personale storiografia – alle grinfie dell’industria, alle sirene dei consumi, all’idolatria dell’eternità, qui ed ora.
Sembra di vederla, la strega, che con la sua iper-corporeità ha tenuto in scacco tre secoli d’Occidente, portandolo dalla religione all’ossessione. Accovacciata a lato della nostra modernità ormai gassosa, lei, così moderna nella sua forza reazionaria, così sensuale nella sua femminilità mostruosa, così realistica nella sua evanescenza immaginaria. E tutto ruota intorno al corpo, anzi, alla corporeità, la vera sfida lanciata dalla donna, la sola cui è pertinente manipolare il corpo: dal bagno ancillare dell’eroe che stanco torna dal lungo peregrinare, alla carezza lenitiva della piaga del malato, all’ultima palpazione del defunto, per renderlo degno del compianto e della sepoltura. Corporeità: questione radicalmente novecentesca, secolo in cui tutto si fa e tutto si disfa. Bei tempi quelli, anche se si era allo scoccare del millennio, quando proprio nel cuore della cultura cattolica più intelligente, gli intellettuali radunati dalla rivista Studium riflettevano sul tema, senza pregiudizi, senza patemi, insomma, senza ossessioni (“Corporeità e pensiero”. Atti dell’VIII Convegno culturale di Studium, Studium, 3-4, maggio-agosto 2000). La questione è tutta lì. Perché da sempre intorno al (e sul) corpo si ingaggiano battaglie. Per cui il corpo è innanzitutto lo spazio di una tragedia. E lo sa bene la strega, che fa da cavia alle ispezioni corporali dei cercatori del demonio addestrati dal Malleus maleficarum e che vede le sue membra ridotte in cenere. Ma la strega non si fa circoscrivere. Essa è portatrice di una corporeità reale e insieme virtuale e potrebbe alimentare la riflessione non solo degli storici e degli antropologi, ma perfino dei cibernetici.
Corporeità e sua disseminazione, signora del luogo e prolungamento in spazi sconosciuti e lontani, sacerdotessa del corpo e manipolatrice della natura, primo esempio di chirurgia plastica (a lei si imputava la capacità di ricostruire la verginità delle fanciulle), grande mentitrice dello statuto naturale del corpo, rigeneratrice della giovinezza, sacerdotessa del corpo utopico (Foucault)…
La modernità, apparentemente razionale e spudoratamente allegra, bada poco a questa figura. La considera d’altri tempi, un retaggio medievale (anche se nel Medio Evo solidamente religioso, di streghe non ce n’erano… le streghe nascono con la secolarizzazione e l’adattamento borghese della religione). Ma la capacità d’adattamento ai tempi della strega è stupefacente. Perché in fondo, ogni società, che usi la pergamena o lo smartphone, si muova a cavallo o sul suv fiammante, subisce le sue belle streghizzazioni. In quanto visione del mondo attraverso la visione del corpo, gran dono diabolico della vista, la strega ci rigetta sarcastica nel mezzo delle aporie che incatenano la nostra corporeità. Perché dovremmo tornare ad ammettere che una società si qualifica innanzitutto per l’uso che essa fa del corpo. E mai come oggi il corpo fluttua nello spazio ambiguo della virtualità. Sottratto alla fatica, schiavo dell’analgesi, continuamente modificato e attualizzato dalla protesistica e dalla chirurgia plastica e soprattutto inibito di ogni coscienza del suo morire; e d’altra parte assolutizzato nel suo eterno presente, esaltato nell’ossessione del cibo, ideologicizzato in una fanatica presunzione ecologica e salutistica… la corporeità contemporanea è così vicina al gioco della realtà dissolta e contraddittoria di cui la strega possiede il segreto antropologico.
La grande regina del virtuale, nel suo volo magico, un po’ come la Margherita Nikolaevna di Bulgakov (Il maestro e Margherita) vede sotto di sé questa comunità disattenta, e annota compiacendosi che le sue immutevoli coordinate non sono scomparse: essere dove non si è ed essere quello che non si è. “Accanto al Satana del passato, vediamo spuntare in lei un Satana dell’avvenire” annotava Michelet introducendo la sua sorcière. Ed è proprio questa sua sacerdotalità sempre attualizzata che si dovrebbe tenere monitorata. Così come la sua liturgia appagante. Il suo occhio si apre allora sul mondo e la sua parola gira al contrario, come le lancette dell’orologio. Ma è solo un gioco. Il grande gioco di Woland. Lucifero in persona, che tuttavia, per questa umanità annoiata, prova disgusto e perfino un po’ di pietà.