“Impariamo dagli ammalati, perché l’infezione di questo virus sui polmoni è qualcosa di devastante su alcuni, ma diversa su altri e cambia anche tre volte al giorno”. Così ci ha detto il professor Felice Achilli, responsabile del dipartimento di cardiologia dell’AO San Gerardo di Monza-Desio. Come quasi tutti i suoi colleghi anche lui da due settimane si occupa dei pazienti del coronavirus e anche il suo ospedale è stato quasi completamente dedicato a loro: “Trattiamo le emergenze per infarti e sindromi croniche, ma poi li mandiamo in altri ospedali perché tutta la terapia intensiva è dedicata a chi è colpito dal Covid-19, quelli che anno bisogno della ventilazione prima dell’intubamento. Abbiamo dovuto chiudere cardiologia, nefrologia, ortopedia e aprire un nuovo reparto per gli infettati dal virus”.
Com’è la situazione nel suo ospedale? Anche da voi ci sono problemi per la mancanza di camici e maschere per il personale sanitario come accade in quasi tutti gli ospedali?
Il problema dei dispositivi di protezione è diffuso dappertutto, anche da noi.
Rispetto a quello che era il suo lavoro di cardiologo da molti anni, questa nuova esperienza cosa le sta dicendo?
Iniziare ad avere un rapporto diretto con questi malati è difficile anche se sei del mestiere. Una quantità così alta di malati con insufficienza respiratoria tutta insieme non l’aveva mai vista nessuno prima di questa pandemia.
Professionisti di lunga esperienza si trovano davanti a una cosa sconosciuta. Non è qualcosa che voi medici e operatori sanitari avete sempre messo in preventivo?
Da un punto di vista professionale e umano è stato un grande sconvolgimento. Diversamente da quello che facevi prima, è evidente che la decisione di assistere i malati ha un aspetto evidente di rischio personale che prima non c’era. Questo suscita preoccupazione nei medici e negli infermieri che devono affrontare questo rischio con la paura di essere infettati. La vicinanza con i malati espone a una probabilità di contagio più alta della popolazione civile.
Infatti sono molti i medici e gli infermieri che si sono ammalati.
sì. Poi va detto che quello che sta succedendo, in modo molto sorprendente, ha suscitato una grandissima disponibilità e dedizione e un modo di rapportarsi fra colleghi e con i paziente assolutamente diverso.
Ci può fare qualche esempio?
Una mia collega mi ha detto che non le era mai capitato così frequentemente di incontrare uno sguardo così lucido in persone ancona intubate. Anche per le informazioni che hanno avuto prima del ricovero, hanno negli occhi una grande paura, sanno che rischiano la vita. È come se lo sguardo di questi malati abbia bisogno di incontrare lo sguardo di qualcuno che non ha paura e che sta con loro senza paura.
Non deve essere facile avere uno sguardo simile.
Non è semplice. Una mia collega mi diceva: noto questo cambiamento e mi chiedo perché. Diceva: o è un caso o è un’emozione che però non mi spiega quello che sta succedendo fra noi. Oppure è la presenza di qualcuno che non ha paura che ci contagia tutti.
Il grande caos mediatico, politico e scientifico che accade “fuori” dell’ospedale vi tocca in qualche modo?
Chi è impegnato con questo tsunami che sta sconvolgendo l’organizzazione che avevamo e che continua a cambiare, e tutte le nostre conoscenze, non ci permette di seguire questo caos mediatico. Il bisogno è così grande che ti chiede di essere flessibile e adattarti continuamente. Soprattutto ciò che sta diventando una percezione fisica quotidiana è che il compito che abbiamo è di guarire, qualche volta di assistere più che puoi, ma soprattuto di confortare sempre.
Il dramma di questa malattia è che i pazienti sono soli, senza l’assistenza dei familiari, è così?
Sì, queste persone sono completamente isolate con in testa un casco anche per 24 ore che fa perdere loro la percezione del tempo.
Hanno solo voi?
Sì. Per questo telefoniamo anche due volte al giorno ai familiari dei pazienti per dare notizie, confortarli, per dire come è la situazione. Questo è un aiuto grandissimo e quando possiamo cerchiamo di favorire questa comunicazione con i pazienti. L’altra cosa he abbiamo imparato è che bisogna imparare dagli ammalati.
Cosa significa?
Il comportamento dell’infezione sui polmoni è devastante su alcuni, ma non è uguale su tutti. Dobbiamo adattare i nostri interventi all’andamento clinico che va rivalutato almeno tre volte al giorno.
(Paolo Vites)
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