Tutta l’Italia è in angoscia e i telegiornali non fanno che dare i numeri dei decessi. I posti di terapia intensiva in Lombardia scarseggiano da tempo e gli appelli ad evitare il contagio si susseguono incessantemente. Un bollettino di guerra con numeri in aumento in tutto il paese, ma anche nel mondo. Le immagini dei camion militari che nella notte di Bergamo trasportano le bare ha di fatto cambiato la sensazione collettiva. Siamo di fronte a un evento eccezionale, a un’emergenza che ha il sapore amaro. C’è chi prega, chi canta sul balcone, chi suona, chi parla, ma anche chi si dispera per non poter condividere con le persone care il dolore e la morte.
Oggi nell’Italia del coronavirus purtroppo si soffre e si muore da soli. Solo un telefonino e un messaggio whatsapp tengono legati i dolorosi affetti. È un’epidemia che al tempo della connessione perpetua e globale mostra allo stesso tempo impotenza, solitudine, ma anche desiderio di unità e partecipazione alla vita degli altri. Figli, madri, fratelli sorelle e padri si incontrano on line per raccontarsi le ultime, per sperare che il supplizio finisca presto.
E poi c’è un Papa, un po’ snobbato dai media americani ed europei, che prega e dice di non buttar via quest’occasione unica, per recuperare i gesti quotidiani. Un papa fotografato nella Roma deserta che va a invocare il santissimo crocifisso protettore dei romani perché venga presto, sia concessa subito la fine della tragedia. Un gesto umano, pieno di tremebonda povertà, lontano dalla sapienza scientifica, dagli algoritmi per prevedere livelli di diffusione, picchi statistici e plateau, come dicono gli esperti.
Uno di questi, un intellettuale alla moda, un matematico di successo, un uomo capace di misurare la realtà, ha però definito quel gesto un bell’esempio di superstizione. Direbbe Montale a Piergiorgio Odifreddi, a “l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e l’ombra sua non cura che la canicola, stampa sopra uno scalcinato muro!” che la vita è fragile, piccola, che non abbiamo la “formula” per spiegare il mondo. Vorremmo dominare la malattia, ma nella vita felice e anche tragica degli uomini, Montale ci racconta che si può scorgere sia l’immagine di un “cavallo stramazzato”, di “una foglia accartocciata”, ma spesso anche di un “falco alto levato”, a volte lontano, dimentico, pur tuttavia una presenza comunque altra, che pur si può invocare, perché “tutte le immagini portano scritto più in là”.
Quell’uomo vestito di bianco, un po’ zoppicante nelle vie solitarie della grande caput mundi, di ieri e di oggi, insegna, anzi suggerisce a tutti di non fermarsi solo all’ottimismo della volontà, al “ce la faremo”, ma ad inginocchiarci di fronte al mistero della vita e da piccoli viandanti guardare a quel “dio ignoto” che per lui, come per tanti altri, è diventato presenza.
Il cinismo di chi non riesce a entrare nel dramma collettivo, di chi può solo vagare nella “scomposta fiera” dell’umanità, come suggerisce Ungaretti, senza essere toccato da un sentimento di povertà, perché il suo calcolo non la prevede, arriva ancora più in là, nel dogmatismo dell’astrattezza ideologica. Odifreddi infatti arriva a dire che “fa solo il suo mestiere” un frate, cappellano dell’ospedale Giovanni XXIII, che a Bergamo prega tra le tantissime bare allineate nella cappella. Non capisce che quel piccolo uomo con il saio e il cordone fa una gesto sacro e profondamente umano, nell’aprire il telefonino e parlare con i parenti delle vittime della nuova pestilenza.
Questo nuovo Fra Cristoforo del Duemila parla a quegli uomini e donne, piangenti e tremebondi, esterrefatti per non poter essere lì, e prega con loro e per i loro cari, coinvolgendoli in un modernissimo rito cristiano telefonico, che permette l’estremo saluto, perché “celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani”. È un mestiere, professore, avere la compassione umana della morte, è un mestiere permettere una lacrima anche se sul telefonino? È un mestiere essere compassionevoli? Poi, è superstizione pregare Dio per alleviare le nostre carnali sofferenze?
Non credo, come non lo ritengono tale quei 4 milioni e oltre di persone che l’altra sera si sono riuniti davanti alla tv per recitare il rosario introdotto dal Papa, con uno share, questa volta notato da alcuni quotidiani, del 13,16 per cento.