Caro direttore,
si moltiplicano gli appelli al Presidente della Repubblica perché assuma iniziative di fronte all’aggravarsi dell’emergenza coronavirus. L’azione di Governo e Parlamento suscita in effetti perplessità e polemiche sempre più vive. A un mese dallo scoppio dell’epidemia il bilancio delle vittime è drammatico; l’economia segnala già fenomeni di “disruption” e il Paese è da domenica in effettivo stato d’assedio.
La crisi sembra sfuggire sempre di più al controllo delle istituzioni democratiche. Il Parlamento è de facto chiuso, ufficialmente per ragioni sanitarie. Lo stesso Governo non sembra nel pieno delle sue funzioni, mentre spicca un ruolo del Premier (attualmente un non eletto) per molti versi abnorme. Alla comunicazione di sabato notte (su un canale non istituzionale come l’account Facebook del Premier) hanno fatto seguito incidenti nelle stazioni ferroviarie – bloccate dalle forze dell’ordine prima ancora che l’ordinanza di Salute e Interni diventasse legalmente operativa – e caos nell’Azienda-Paese, lasciata per tutta la giornata di domenica senza informazioni sulla riapertura di oggi.
Gran parte dei provvedimenti che hanno limitato in misura via via crescente libertà costituzionali primarie (di spostamento, di iniziativa economica, ecc.) sono stati assunti con decreti del Presidente del Consiglio: atti di regolazione secondaria, senza forza di legge. Nessuno di questi atti è stato condiviso preventivamente neppure con il Consiglio dei ministri, né sarà oggetto di esame da parte delle Camere.
Lo sarà invece il decreto “cura Italia” che ha deciso la destinazione di 25 miliardi accordati in via straordinaria dall’Ue. Il termine di conversione di due mesi appare tuttavia lunghissimo nei tempi serrati dell’emergenza e non è certo che le condizioni sanitarie all’inizio di maggio siano diverse da quelle che oggi sembrano impedire al Parlamento di riunirsi. Lo stesso “decretone” ha visto la luce in modi molto discutibili: con un concerto di fatto fra singoli membri del Governo nell’arco di quattro giorni, con la continua pubblicazione di “bozze definitive”.
Sempre più dubbi suscita anche la gestione di poteri di fatto “pieni” sul fronte delle relazioni internazionali, in una fase eccezionale. Mancano costantemente informazioni complete e trasparenti sulle posizioni del Governo italiano nelle diverse sessioni di Consiglio Ue. Il Premier, in particolare, ha rivelato (a un quotidiano estero non europeo) solo due giorni dopo il Consiglio dei capi di Stato e di governo di martedì 17, di aver posto una questione della massima delicatezza come l’utilizzo del “Fondo salva-Stati” in funzione creditizia verso Paesi in difficoltà. Già in occasione del “ribaltone” di governo dello scorso agosto aveva destato perplessità la mole di endorsement esterni giunti al Presidente del Consiglio, in particolare da importanti capi di Stato non-Ue.
Non certo da ultimo, le tensioni interne fra Governo e Regioni sono probabilmente già oltre la linea rossa: a dispetto dei continui richiami all'”unità nazionale” da parte del Quirinale. Ma perfino costituzionalisti come Sabino Cassese – vicinissimo al Presidente della Repubblica e da sempre critico verso le forze politiche attualmente all’opposizione a Roma – stanno rivolgendo sempre più le loro riflessioni critiche al comportamento delle istituzioni portanti della democrazia costituzionale.
Com’è possibile, ad esempio, che milioni di studenti e insegnanti della scuola pubblica si accingano a concludere (regolarmente) l’anno scolastico sulle piattaforme digitali mentre le Camere sono diventate “sorde e grigie”? Il decretone ha autorizzato la regolare tenuta delle assemblee annuali delle grandi società quotate per via telematica: cosa impedisce al Parlamento di riunirsi nelle stesse modalità per discutere il decretone stesso? Se il Premier non mostra remora alcuna a comunicare “al Paese” via social media, cosa gli vieta di riferire al Parlamento? La Costituzione gli imporrebbe anzi di farlo in via principale se non esclusiva. Il ritmo ossessivo delle interviste a rotazione quotidiana sulle prima pagine delle grandi testate sembra invece evocare ogni giorno di più il tempo (anti-democratico) delle veline, delle censure e dei sussidi finanziari discrezionali del Governo a una stampa non libera.
L’emergenza istituzionale – effetto dell’epidemia – tende a rivelarsi sempre più come prima causa dell’aggravarsi sia dell’emergenza sanitaria, sia di quella economica. E sarebbe politicamente disonesto – e offensivo dell’intelligenza dei cittadini-elettori – attribuire quanto è accaduto nell’ultimo mese in Italia soltanto al proverbiale “destino cinico e baro”. Ed è ancor meno accettabile il “mantra” secondo cui “ci sarà tempo per accertare eventuali responsabilità, eccetera”.
La questione non è il rinvio a domani di una valutazione di stampo giudiziario su fatti e scelte di ieri. Il problema è invece politico, anzi drammaticamente civile oggi: quando la statistica prevede che per altri giorni si aggiungeranno altre centinaia di vittime agli oltre 5mila “caduti” nell’ultimo mese; oltre alle decine di migliaia di nuovi disoccupati.
Se la condotta del manovratore suscita dubbi ai passeggeri, il divieto di disturbo viene meno. Anzi: è lecito togliergli i comandi prima che sia troppo tardi.
La Costituzione repubblicana è tuttora solida nell’offrire una varietà di presidi e strumenti efficaci. La principale istituzione di garanzia resta la Presidenza della Repubblica: che dispone di leve formali (anzitutto: la facoltà di invio di messaggi alle Camere, che oggi sarebbe di per sé un sollecito alla loro funzionalità) e può seguire prassi depositate nella “Costituzione materiale”. Perfino Sergio Mattarella ha già attinto in più di un’occasione all’interpretazione “semipresidenzialista” maturata dal predecessore Giorgio Napolitano in nove anni caratterizzati da continua eccezionalità.
L’organo di garanzia ultima della legalità democratica resta d’altronde la Corte Costituzionale: fra l’altro magistratura giudicante delle alte cariche dello Stato messe in stato d’accusa. La Consulta, è vero, interviene con tempi e procedure suoi propri, su istanza di parte (ed è peraltro indicativo come su questioni recenti ad alto contenuto politico come la costituzionalità dei decreti sicurezza o del referendum sulla legge elettorale, la Corte si sia espressa su quesiti posti dalle Regioni). Negli ultimi anni, tuttavia, anche la Consulta ha adottato prassi comunicative meno formali e a più alta incisività nella vita pubblica nazionale
È ancora fresco, ad esempio, il ricordo di una presa di posizione dell’allora presidente della Corte, Giovanni Lattanzi, attinente l’azione del Governo Conte-1 nella gestione dei flussi migratori. Un’intervista di grande risalto, nel gennaio 2019, vide Lattanzi affermare in modo fermo e giuridicamente argomentato la costituzionalità dei diritti dei migranti a essere accolti in Italia. L’uscita del Presidente a più di un osservatore parve inusuale: perché individuale e mediatica, fuori dalle forme canoniche di pronuncia da parte della Consulta. Quel che più contò, Lattanzi intervenne in tempo reale nel pieno di una vicenda politica di estrema delicatezza: quella che vedeva il vicepremier e ministro dell’Interno in carica Matteo Salvini sotto minaccia di impeachment per il “caso Diciotti”. Per quanto border line, la presa di posizione di Lattanzi svolse comunque appieno una funzione di comunicazione politico-istituzionale informale: esternando le forti perplessità del Presidente della Repubblica sulle “normative Salvini “, che finirono mesi dopo nella lettera di rilievi che il Quirinale allegò in sede di promulgazione del secondo decreto Salvini.