Le scuole sono chiuse. Con ogni probabilità l’anno scolastico è finito. Non era capitato nemmeno in tempi di guerra. Da questa grave e inaspettata emergenza, è partito tutto un comprensibile correre ai ripari per erogare lezioni e attività didattiche a distanza. Si è scomodato l’inglese per nobilitare il fenomeno: distance learning.
Tutto però giocato sul volontariato, sul gran cuore educativo dei docenti ancora appassionati della loro missione. Per fortuna anche la scuola ha i suoi medici eroi. Lo stesso ministro ha dovuto infatti riconoscere che gli insegnanti non sono tenuti a queste attività on line perché ciò “non è previsto dal contratto”. Sospendiamo norme generali e specifiche, libertà personali in tutti gli ambiti, accettiamo silenti l’incontenibile esondazione dei poteri esecutivi su quelli legislativi, costringiamo a chiudere senza pietà negozi e imprese, mettiamo decine di migliaia di lavoratori in cassa integrazione, il Parlamento è in quarantena, spesso anche la Costituzione non viene rispettata senza che si sollevino legittime proteste, ma nella scuola il contratto è un tabù sacro a cui è sempre dovuta compunta genuflessione.
Ecco, credo occorra partire da questa contraddizione per sperare di poter trasformare le avversità provocate dal coronavirus alla scuola nell’opportunità di un suo profondo rinnovamento. Del resto atteso da tempo, ancorché sempre voluto a parole di giorno, ma disfatto nella sostanza di notte.
1. La prima condizione perché accada questa inversione è togliere ogni alibi più o meno giustificato dei docenti all’impiego quotidiano delle competenze digitali in presenza e da remoto. Non solo dunque è necessario contrattualizzare le attività didattiche a distanza, ma molto di più e meglio è indispensabile che nessun docente, giovane o anziano, possa più affermare in futuro di non poter esercitare tali competenze per l’assenza: a) di una formazione specifica e costante sia iniziale, prima del reclutamento, sia in servizio; b) di device; c) soprattutto di adeguate infrastrutture di rete (fibra ottica, banda larga, 5G).
Certo, se nel 2001 la prima delle “I” dello slogan (Internet, Inglese, Impresa) con cui il ministro Moratti aveva voluto sintetizzare il suo programma di riforma della scuola non fosse stata ridicolizzata e interdetta, ma perseguita con coerenza come l’anticipazione di un futuro già allora in ritardo, non saremmo oggi così in affanno. E forse il mezzo miliardo speso negli ultimi cinque anni dal Miur per rilanciare le competenze digitali nelle scuole avrebbe consentito di affrontare anche l’attuale emergenza con maggiore efficacia e minor improvvisazione, visto che il ministro ha dovuto in fretta e furia promettere l’assunzione di 1000 assistenti informatici e la messa a disposizione di altri 8 milioni per le attrezzature, provvedimenti che, purtroppo, arriveranno a compimento quando si spera che l’emergenza sia finita.
2. La seconda condizione è, tuttavia, molto più importante della prima. Riguarda la visione senza la quale ci troveremmo con una Ferrari che però si muove come una lumaca. Il passaggio al digitale, infatti, nella scuola, non è tanto o soltanto una questione di competenze professionali informatiche di base, di device e di reti accessibili e funzionali, ma è un problema soprattutto di modi di pensare e di agire che vanno cambiati. Il paradigma formativo attuale, spesso anche pigramente accreditato come l’unico davvero di qualità, è, purtroppo, incompatibile con la rivoluzione digitale. Non si tratta, nei percorsi formativi iniziali e continui dei docenti, di rifiutare la rivoluzione della parola orale interpersonale. La prima che si è presentata nella storia dell’umanità e che mantiene ancora ben saldo il suo valore. Platone, ad esempio, considerava il dialogo tra persone in presenza l’unico modo serio di fare formazione. E anche oggi non esiste pedagogia che lo sottovaluti. Tantomeno si tratta di immaginare superata e da archiviare la rivoluzione dei testi scritti. Proprio quella che Platone aveva criticato ma che poi, per quasi duemila anni, è stata la colonna vertebrale delle scuole non solo occidentali, ma mondiali.
Si tratta semplicemente di prendere atto che la rivoluzione digitale del sonoro e del visivo-motorio, oggi così pervasiva da essere quasi come l’aria che respiriamo, non è un virus culturalmente molto più letale del coronavirus solo se ingloba le due precedenti rivoluzioni e le esalta, migliorandole, sprigionando le loro ulteriori potenzialità oggi inibite da ormai inaccettabili prestazioni oratorie e da routine nozionistico-memoriose che comprimono gli apprendimenti.
È da questa “nuova alleanza” a tre che può nascere qualcosa di buono per la qualità della formazione del terzo millennio. La sua cifra costitutiva non è più l’atteggiamento separatorio e gerarchico da mantenere tra lavoro individuale e lavoro cooperativo, tra presenza e distanza, tra orale, scritto e sonoro-visivo-motorio oppure tra saperi disciplinari, tipologie di scuole (generaliste, tecniche, professionalizzanti), tempi della scuola, della famiglia, dell’impresa e del sociale. Al contrario la sua cifra è quella dell’atteggiamento integrativo e paritario tra tutte queste dimensioni.
Atteggiamento che, se assunto e reso pratica quotidiana, liquiderà in pochi decenni come reperti archeologici inefficienti le rigidità delle classi, l’insegnante di una materia, la distinzione tra compiti in classe e a casa, i piani di studio che conosciamo, l’anno scolastico stabilito centralmente uguale per tutti, l’esame di Stato, i giorni di scuola, gli orari settimanali, le vacanze estive, l’idea che le conoscenze scolastiche siano altro dalle competenze personali professionali e sociali.
3. La terza condizione è di mantenere nel breve periodo un minimo di coerenza con le prime due che sono tanto di medio-lungo periodo quanto necessarie per una scuola che non si rassegni all’anacronismo autoreferenziale e alla difesa corporativa delle proprie abitudini.
Fa impressione, ad esempio, che oggi troppi responsabili istituzionali, in teoria leader che dovrebbero traghettare anche i renitenti verso le sfide del futuro, continuino a leggere l’attuale forzata inattività scolastica come una parentesi. Passato il coronavirus, assicurano, si torna in classe. I docenti riprenderanno a far lezioni, dettati, compiti in classe e interrogazioni come si è sempre fatto. Semmai i sindacati chiederanno da settembre il tempo pieno per recuperare i “buchi” del mitico programma. E avranno qualche iscritto in più. Insomma, passata la festa gabbato lo santo: addio rivoluzione digitale. Addio nuovi modi di apprendere, più liberi e costruttivamente cooperativi. Inutile osservare che se fosse così, i mesi di sospensione delle lezioni sarebbero davvero stati ulteriore tempo perso che si aggiunge a quello degli ultimi vent’anni.
Così come colpisce che molte scuole ritengano di essere diventate digitali perché, via video, whatsapp o skype, infliggono ogni giorno ai ragazzi (e purtroppo ai loro genitori) le pagine del libro di testo da studiare, i tradizionali compiti a casa, li correggono e pure li valutano, in un vorticoso giro di scanner, foto e mail. Vanno senz’altro premiate per la buona volontà e per le intenzioni di non perdere i contatti con i propri studenti. Ma di sicuro non perché, sfruttando le potenzialità del digitale, introducono quel nuovo e sempre più urgente modo complesso di apprendere che abbatte le tradizionali barriere tra discipline, studenti, docenti, famiglia e vari attori socio-professionali e che costruisce autentiche comunità di ricerca di cui l’insegnante è intelligente gouverneur (Rousseau, Emilio, 1762). A meno che si pensi che i genitori (e, ad emergenza finita, anche i nonni oggi costretti a videowhatsappare) debbano continuare a fare gli attendenti di figli e nipoti impegnati nell’esecuzione dei tradizionali compiti scolastici invece di essere loro alleati e cooperatori nella soluzione di problemi autentici e, alla von Foester, nella risposta alle tante domande legittime (cioè di cui anche chi le pone non sa la risposta) che sorgono come funghi durante ogni giornata intellettualmente motivante.
A questo proposito un’ultima questione. Pur sapendo dai diplomatici e dai servizi segreti fin da dicembre-gennaio che in Cina era scoppiata una gravissima epidemia, sembra che i nostri governanti siano stati colti da una specie di complesso di Sigfrido. Ritenere il nostro paese per chissà quali meriti invulnerabile. Dimenticando la foglia di tiglio caduta sul corpo dell’eroe mentre veniva coperto dal magico sangue del drago Fafnir appena ucciso. È per questo che invece di governare l’emergenza avendo preparato un piano A (scenario 1) e un piano B (scenario 2) si sono fatti governare dall’emergenza. Anche nella scuola.
Non bisogna ora ripetere la stessa esperienza di improvvisazione nei prossimi mesi estivi. A tutt’oggi, infatti, si parla di voti, esami, fine dell’anno scolastico ma non esiste uno straccio di iniziativa per un organico piano nazionale che assicuri famiglie e studenti che, quest’anno, “stato di eccezione”, le scuole resteranno aperte anche da metà giugno a metà settembre e saranno poli di aggregazione sociale di bambini e ragazzi. Per chi vuole, naturalmente. O ne ha bisogno, visto che non tutti vanno in ferie con le famiglie. Soprattutto quest’anno, quando tantissimi genitori le hanno dovute consumare per gestire i figli nel periodo di fermo scolastico e, c’è da augurarselo, a giugno non resteranno disoccupati a casa.
Stato, Regioni, Anci, ministero della Salute, coinvolgendo sindacati e il ricco mondo delle cooperative, dovrebbero quindi dire al più presto che tra giugno e settembre, emergenza sanitaria permettendo, le istituzioni scolastiche offriranno sia corsi di recupero scolastici con docenti in servizio adeguatamente incentivati sia libere attività di gioco, sport, animazione e socializzazione. Soprattutto, quest’ultime, per i bambini dell’infanzia, i più sacrificati in questi mesi di reclusione. Anche per rielaborare da subito, sul piano educativo, esperienze, paure, sentimenti, lutti, noie, dipendenze eccessive da tablet che ogni bambino piccolo è stato costretto a subire.