Mentre sabato sera il premier italiano Giuseppe Conte annunciava un piano d’emergenza alimentare interna, il presidente della Commissione Ue, la tedesca Ursula von der Leyen, ha chiuso all’emissione di “coronabond” con garanzia europea. Una mossa brusca – anche se non del tutto imprevedibile – da parte dell’ex ministro della Difesa del governo Merkel, ascesa a sorpresa a Bruxelles lo scorso luglio. La sortita di “Orsola” – solo in parte rettificata – ha comunque sollevato molte perplessità: non solo in Italia.
La Presidente della Commissione europea, anzitutto, è istituzionalmente super partes: agisce nell’interesse dell’Unione, non di un singolo paese Paese-membro (tanto meno di quello di cui è cittadina). E chi è in quella posizione è chiamato a esercitare un tipico ruolo di mediazione esecutiva finale, entro le linee politiche indicate dal Consiglio dei capi di Stato e di governo. E quello tenuto giovedì scorso si è concluso con un faticoso documento di compromesso, che ha concesso dieci giorni agli euro-ministri delle Finanze per formulare ipotesi operative sulla concessione di prestiti straordinari ai Paesi più in difficoltà (Italia e Spagna non hanno votato il documento, la Francia di Emmanuel Macron sì, ma non prima di aver appoggiato una proposta di otto Paesi per forti finanziamenti europei d’emergenza). Perché von der Leyen è scesa in campo con tanta prontezza per schierarsi con la Germania e stroncare sul nascere le richieste dell’Europa meridionale?
Udito dall’Italia, il no di “Orsola” è suonato ulteriormente controverso per ragioni molteplici. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha parlato per due volte in tv, negli ultimi giorni, chiedendo all’Europa di non porre “ostacoli” e quindi più apertamente di “aiutare” l’Italia messa in ginocchio dalla pandemia. E per la verità anche “Orsola” ha lanciato (in italiano) in tv un messaggio iniziale di solidarietà. In quell’occasione ha dato segno di rammentare – sul piano politico oltreché istituzionale – quanto è avvenuto pochi mesi prima: quando la sua sua designazione all’Ue è stata sostenuta dal premier italiano in Consiglio e poi – in modo decisivo – dai voti M5S e dal presidente David Sassoli (Pd-Pse) in europarlamento. Di più ancora: il ribaltone di Governo pilotato da Conte era stato apertamente promosso come “operazione Orsola” da Romano Prodi, predecessore di von der Leyen sulla poltrona più importante di Bruxelles.
L’intera stagione politica recente in Italia ha avuto come riferimento ultimo “l’Europa di Orsola”: rimanendo fedele ai cui valori il Paese avrebbe trovato – nelle premesse e promesse – le sponde necessarie che invece la precedente maggioranza giallo-verde non sembrava poter garantire a un’Italia in profonda crisi. Ora invece proprio von der Leyen è parsa pugnalare alle spalle il “suo” Governo in Italia, proprio nel momento di massima difficoltà, Non diversamente, la Commissione Juncker aveva colpito a freddo il Conte-1 tre giorni dopo l’affermazione della Lega alle europee di un anno fa, con una dura procedura d’infrazione per debito eccessivo.
Se risaltano gli evidenti limiti di forza interna e internazionale del Conte-2, a Roma l’ipotesi di un esecutivo istituzionale affidato a Mario Draghi sembra assumere più forza. Draghi ha rotto il riserbo rispettato da quando ha lasciato la guida della Bce a Christine Lagarde con un intervento sul Financial Times che sta tuttora facendo discutere. La linea macro di politica economica è chiara e semplice: l’Ue – diversamente dagli Usa – non deve aver timore a seguire le strade dell’helicopter money. Anzi, la via dell’indebitamento sembra obbligata se non si vuole lasciare l’economia europea soffocare irreversibilmente per crisi di liquidità.
Sul piano operativo, tuttavia, lo schema “salva Europa” delineato da Draghi presenta alcuni aspetti specifici, che chiaramente attendono ancora di essere sviluppati. L’approccio strategico chiama immediatamente in campo “la piena mobilitazione dell’intero sistema finanziario: mercato obbligazionario (per lo più a a beneficio di grandi gruppi) sistema bancario e in qualche Paese anche il sistema postale”. In particolare, nota l’ex presidente della Bce, “il sistema bancario si estende attraverso l’intera economia e può creare moneta istantaneamente, consentire prelievi e aprire linee di credito”.
È in questo quadro che “le banche possono rapidamente prestare fondi a costo zero alle imprese impegnate a salvare posti di lavoro”. Gli intermediari bancari opererebbero in questo modo “come veicoli di politiche pubbliche”. E “il capitale loro necessario a questo dev’essere fornito dalle istituzioni governative in forma di garanzie statali a tutti i prelievi (indebitamento delle famiglie, ndr) o ai prestiti (alle imprese, ndr). Né la normativa in corso, né altre regolamentazioni collaterali dovrebbero ostacolare l’apertura di ogni spazio necessario nei bilanci bancari a tale fine. In più, il costo delle garanzie non dovrebbe essere basato sul merito di credito delle imprese finanziate. Dovrebbe invece essere zero senza riguardo al costo del finanziamento che le istituzioni governative sostengono per prestarle”.
Lo schema Draghi si dilunga anche nello sviluppo tendenziale di una strategia di risanamento economico-finanziario in cui l’indebitamento privato viene assorbito da quello pubblico, nella prospettiva di essere sgonfiato nel medio periodo da politiche e cicli anti-recessivi. È evidente da subito il ruolo cruciale del sistema bancario come “braccio pubblico” nel fronteggiare i rischi di disruption. europea. Rimangono naturalmente tutti da capire i risvolti prevedibili per un sistema bancario largamente composto da banche profit oriented quotate in Borsa: secondo il disegno di lungo periodo impresso dalla Seconda Direttiva Ue del 1992.
Gli interrogativi da sciogliere restano comunque molti. Dopo la crisi del 2008, molte banche europee sono state nazionalizzate: in Olanda, Germania, Gran Bretagna, Italia e Francia. Ma non ne è stata toccata la governance privata e di mercato; e molti casi non sono stati eliminati dividendi e bonus ai top manager. Il fine dei salvataggi pubblici era unicamente la salvaguardia della stabilità del sistema bancario. Lo Stato è entrato come azionista, spesso di maggioranza, ma in vesti non diverse dagli azionisti privati; e in un quadro di sostanziale mantenimento dei business model delle banche.
Ai fini del duro confronto europeo di questi giorni, nello “schema Draghi” non è assente – anche se per ora in termini molto impliciti – la prospettiva di un fase di profonda ristrutturazione del sistema creditizio bancario europeo. Vi si può cogliere la preoccupazione di difendere i grandi player europei da rischi di scalate ostili e di aggregazioni pilotate sotto la regia pubblica. ma sotto una luce più politica e ravvicinata – cioè quella di un vertice Ue virtualmente in “sessione aperta” – quella di Draghi sembra anche una mano tesa alla Germania: il cui sistema bancario è in forte difficoltà, caratterizzato – soprattutto – da Sparkassen e Landesbank tuttora sotto il controllo delle amministrazioni federali, fino all’ultimo abbarbicate attorno alla garanzia pubblica dell’attività bancaria. E non ha certo sorpreso che a Berlino o Francoforte l’entrata in campo di Draghi – con una ricetta originale e strutturata – non abbia finora registrato reazioni negative.