Dallo scoppio della pandemia di coronavirus in Cina i paesi occidentali hanno pensato – e continuano a farlo – che il covid-19 abbia colpito innanzitutto Wuhan e la provincia dello Hubei. E questo è vero; “ma hanno inteso questo come se il resto della Cina continuasse a vivere e produrre normalmente. E questo non è mai stato vero e non lo è ancora adesso” dice Francesco Sisci, sinologo, per anni corrispondente dalla Cina per Il Sole 24 Ore e La Stampa. Dopo una grave, iniziale sottovalutazione, tutta la Cina si è fermata. Quando il 23 gennaio è scattato il lockdown, Taiwan, Giappone e Corea hanno subito compreso la gravità della situazione e grazie a contromisure drastiche hanno arginato l’epidemia. Non così l’Italia, ora in ginocchio. Gli altri Stati europei e poi gli Usa hanno commesso lo stesso errore. Questo rende l’orizzonte temporale di fine epidemia del tutto incerto.
Che cosa si può dire di certo, al momento, della situazione cinese?
Una su tutte: Pechino ha chiuso tutto il paese in maniera molto più stretta di quanto abbiano fatto finora i paesi occidentali, Italia su tutti.
Tutto il paese, dunque. Non solo Wuhan e lo Hubei?
Ancora una volta l’occidente non ha saputo interpretare le decisioni della Cina. Tutti sapevano che Pechino ha chiuso Wuhan e l’Hubei. Vero. Non si sa perché, però, i paesi occidentali hanno inteso questo come se il resto della Cina continuasse a vivere e produrre normalmente. E questo non è mai stato vero e non lo è ancora adesso.
Qual è la verità?
La verità è che tutta la Cina è stata chiusa. Il lockdown di Wuhan e dell’Hubei è stato estremamente rigido, quello di Pechino e Shangai meno rigido, ma in questo momento Pechino e Shangai sono chiuse in modo forse più severo di Milano o Venezia.
Il messaggio dalla Cina è stato ingannevole.
No. I cinesi vanno capiti. È quello che hanno saputo fare subito Taiwan, Sud Corea e Giappone. Ai primi contagi hanno mappato tutto e bloccato sul nascere la diffusione del contagio, prendendo l’emergenza in modo estremamente serio.
Che cos’hanno capito a differenza dell’Occidente?
A Taipei, Tokyo e Seul sanno bene che il potere cinese è abbastanza freddo, calcolatore dell’interesse generale sull’interesse dell’individuo. A chi importa di più la produzione economica? I cinesi per crescere come sappiamo hanno fatto sacrifici indicibili per 40 anni. Ma se la Cina blocca l’economia in maniera così radicale, che cosa significa? Significa che il pericolo, al di là dei numeri veri o non veri, è gravissimo. E quei paesi, a differenza dell’Italia, hanno agito di conseguenza.
Ma in Cina le aziende hanno smesso di lavorare o no?
Si è fermata tutta la Cina per circa 40 giorni, tranne i servizi davvero essenziali. Questo è il punto, che non so per quale strano motivo non è stato compreso in occidente.
Forse la spiegazione è semplice: di Pechino non ci si può fidare.
Forse stiamo già dimenticando che lo stesso governo cinese ha trascurato l’epidemia per due mesi, dall’identificazione del virus a fine novembre fino al lockdown del 23 gennaio. Due mesi nei quali Pechino ha di fatto esitato, è stato incerta con il virus come si è fatto dopo a Milano, Roma, Parigi e Londra. Poi il governo si è reso conto che la stuazione metteva a repentaglio il paese e ha deciso il blocco totale.
E adesso?
Adesso la Cina è lungi dall’essere tornata alla normalità, ma le aziende stanno riprendendo gradualmente a lavorare.
È in grado di darci una dimensione dell’operatività, indicativa, in percentuale?
Ahimè no, ma qui c’è anche un altro fattore che nel frattempo si è messo in moto. La domanda globale si sta fermando, perché tutte le economie stanno rallentando, colpite una ad una dal contagio, quindi non c’è richiesta per le esportazioni cinesi, che sono il grande motore dell’economia.
Tutto questo cosa dice?
Dice chiaramente che se a due mesi dall’allarme, e dopo misure molto più drastiche di qualsiasi altro paese, la Cina è ancora lontana dalla normalità, un orizzonte temporale chiaro di fine epidemia ancora non c’è. Per capirci: se prima ho 41 di febbre e adesso 40, o 39,5, sono lontano dallo stare bene.
Che cosa dimostra che tutto è ancora sospeso?
Xi ha rinviato sine die la plenaria del parlamento cinese del 5 marzo. È una cosa senza precedenti nella storia della Cina moderna. Vuol dire che la situazione non è ancora sotto controllo.
Ma c’è davvero bisogno di riunire il parlamento?
Sì, è la riunione politica più importante dell’anno e questa volta è tanto più fondamentale perché occorre valutare la risposta all’epidemia e la tregua stabilita alla fine del 2019 con gli Usa sul commercio. Due questioni cruciali, su cui il paese deve trovare un ampio consenso. Se quindi non si fa la riunione è perché c’è ancora incertezza sul controllo del contagio.
Qual è la provincia più colpita?
Sembra ancora essere l’Hubei. Anche qui alcune industrie stanno riprendendo. Attualmente la Cina è l’unico paese che produce mascherine e attrezzature mediche su vasta scala.
Nel 2015 la trasmissione “Leonardo” di Rai3 aveva documentato la manipolazione di un virus nei laboratori cinesi che sembra identico a quello che ha causato oltre 30mila morti nel mondo e più di 665mila contagi. Cosa può dirci?
I virus si studiano in tutti i laboratori del mondo avanzato. Distinguerei tra coronavirus ed epidemia, e del perché si è sviluppata l’epidemia abbiamo in realtà una spiegazione molto semplice.
E quale sarebbe?
Come abbiamo già detto, un’ancora diffusa mancanza di igiene nelle campagne, aggravata dalla perdurante peste suina. Il resto lo ha fatto una catena di comando opaca, che in Cina tende normalmente a nascondere la verità. Il problema è stato coperto anziché denunciato.
Si può smentire l’ipotesi della fuga del virus da un laboratorio?
Tenderei ad escluderlo, perché sarebbe stato l’evento più facile da controllare. Il vero nodo resta l’epidemia: la Cina ha innanzitutto sottovalutato l’estrema contagiosità del virus. Se si ha la piena avvertenza di ciò che si manipola, si prendono subito le contromisure necessarie, ma questo non è avvenuto.
Cosa pensa delle contromisure attuali?
Sono estremamente severe e speriamo che siano efficaci. Alcuni frutti li stanno dando. Ad esempio hanno sospeso il visto per tutti gli stranieri. Io ho un visto di residenza in Cina ma non posso tornarvi per il momento.
I viaggi interni alla Cina sono consentiti?
sì, ma chiunque si muova da città a città, fa a spese proprie 14 giorni di isolamento nella città di destinazione e altri 14 quando torna indietro. Tutte le città sono di fatto isolate l’una dall’altra e non si sa fino a quando.
Qual è il numero delle vittime cinesi?
Su questo punto l’unica cosa certa è che si danno numeri. Non sappiamo quante siano le vittime.
Dunque siamo liberi di ritenere che le cifre ufficiali non siano credibili.
Conviene partire da ciò che sappiamo con certezza. Sappiamo che per due mesi Pechino ha sottovalutato l’emergenza, conosciamo la velocità di diffusione del virus, sappiamo che lo Hubei è un terzo del territorio italiano con la stessa popolazione dell’Italia. Sappiamo che in due mesi in Italia il covid-19 ha causato la morte di quasi 11mila persone. Quante vittime può avere fatto a Wuhan, dopo ma soprattutto prima delle misure di contrasto?
La Cina ha dovuto bilanciare allarme e sicurezza?
Certamente sì. Dire per esempio che sono morte centinaia di migliaia di persone avrebbe sparso il terrore. Dei morti sappiamo poco. È anche comprensibile volere controllare il panico. Il panico sociale può essere più grave delle morti per l’infezione, basta pensare alle rivolte del pane manzoniane durante la peste di Milano.
Quali conclusioni ne possiamo ricavare?
Si può dire che l’Italia, paese democratico e trasparente, consente di farsi una idea abbastanza precisa della gravità dell’epidemia, in tutte le direzioni.
Il governo cinese ha usato i big data?
Sì, per tracciare gli spostamenti. Tutti sono stati mappati per evitare che si spostassero.
Che si spostassero quanto?
In certe città non si poteva uscire dal condominio.
E i rifornimenti alimentari?
C’era una struttura di consegna a domicilio. Ordinavi con il cellulare, pagavi via telefono, ricevevi il pacco davanti al portone, scendevi, il postino si allontanava, disinfettavi il pacco e lo portavi in casa.
Queste misure sono ancora in vigore?
Dipende dalle varie città. Ma ancora, che io sappia, non ci sono grandi città dove la situazione è ritornata ad essere quella della vita prima del virus. Questo ci dà un orizzonte per l’Europa e l’America. Se dopo due mesi di misure draconiane non c’è ancora la normalità in Cina, quando può tornare in un occidente che non ha adottato metodi così fermi?
È prematuro parlare di un effetto-coronavirus sulla geopolitica dell’Asia?
Per ora sì. Vediamo appena l’inizio di una grande recessione e l’accelerazione di un processo di distacco delle produzioni fra Cina e altri paesi. Il Giappone sta preparando un piano di aiuti di circa 2 mld di di euro per sostenere le aziende che vogliono uscire dalla Cina e portare le produzioni in Giappone o in altri paesi della regione. Ma ancora è troppo presto. C’è comunque la speranza che da questa tragedia si facciano anche dei passi positivi.
Ci sono indizi in tal senso?
La settimana scorsa c’è stato un colloquio telefonico tra il presidente americano Donald Trump e il collega cinese Xi Jinping per trovare modalità di assistenza reciproca in questo momento. La forza produttiva cinese darà priorità agli aiuti agli Usa e Washington ha già cominciato a inviare cereali alla Cina. Bisogna vedere come procede.
(Federico Ferraù)