In un angolo di un magazzino di uno spedizioniere brianzolo giacciono da mesi scatoloni con migliaia di mascherine chirurgiche, certificate, mai spedite perché l’emergenza in Cina è finita. Per intendersi, non quelle che arrivano a molti ospedali italiani e che non si possono usare. Il direttore conosce un amico di un’amica, che lavora al Cottolengo di Cerro Maggiore, poco lontano: “Ne avete bisogno? Le vorrei donare a qualcuno a cui servono” dice. All’altro capo del telefono Franca Zambon, infermiera della Piccola Casa della Divina Provvidenza dell’istituto Cottolengo, scoppia a piangere. Sì, le servono, perché da quando è scoppiata l’emergenza coronavirus si trova qui con 120 ospiti anziani di cui almeno 4 in gravi condizioni, ma senza nessun aiuto da parte della Regione o della Protezione civile. “Ero uscita in giardino disperata, piangendo – racconta – perché non avevamo più nulla. Piangevo e dicevo: Signore, fai qualcosa tu, io non so più cosa fare”. In questi tempi terribili di morte, si abbia fede o no, la Provvidenza di cui raccontava Alessandro Manzoni si manifesta. A dispetto di quella, continua Franca Zambon, che è una decisione presa a tavolino da Agenzie di tutela della sanità, Protezione civile, autorità sanitarie della Regione: non curare gli anziani. “I malati che provengono dalle Rsa non li prendiamo in ospedale, assisteteli finché potete e poi accompagnateli (alla morte), ci hanno detto”. Anche così si possono spiegare le cifre da strage che provengono dalle Rsa lombarde.
Quanti ricoverati avete e quanti in gravi condizioni?
Abbiamo 120 ricoverati divisi in due nuclei di anziani, due nuclei di suore anziane malate, due nuclei da 40 posti con malati di Alzheimer e un nucleo più piccolo con disabili anziani sempre vissuti qui.
Avete dei casi di persone infette?
In questo momento 4 persone gravi, però rimangono sospette, perché da noi i tamponi non vengono a farli.
Perché non vengono?
Quando tutto è cominciato, quando abbiamo avuto il primo caso sospetto, un signore con polmonite stranissima che non si riusciva a curare, abbiamo ipotizzato fosse il virus. Con tutti i ricoverati che abbiamo, c’è anche da noi una comunità di suore anziane che lavorano ancora nei reparti, abbiamo temuto la diffusione del virus. Abbiamo chiamato il 112, come agli inizi veniva detto di fare, e ci hanno risposto che sarebbero venuti a prenderlo.
È stato così?
No, dopo 10 minuti ci ha chiamato il direttore del 112 dicendo che l’ambulanza era stata bloccata. Avevano deciso che dalle Rsa nessuno sarebbe stato portato al pronto soccorso.
Come hanno giustificato questa decisione?
Erano i primi giorni dell’esplosione del virus, in effetti i pronto soccorso erano strapieni di persone in attesa per ore e giorni, si rischiava di diffondere il virus.
In un ospedale che funziona come dovrebbe un virus non dovrebbe diffondersi. Che altro vi hanno detto?
Ci hanno detto di assisterli noi, se avevamo maschere per l’ossigeno, dopo di che hanno detto che nessuno mai metterà in ventilazione o intuberà persone provenienti dalle Rsa.
Come dire: lasciateli morire?
Abbiamo chiamato l’Ats, chiedendo dei tamponi, ci hanno risposto che per le Rsa non erano disponibili. Adesso ci dicono che probabilmente riusciranno ad avere test per i pazienti o per il personale, se ci sono casi sospetti.
Adesso che i ricoveri diminuiscono. Avete casi di personale infetto?
Abbiamo tanto personale che si mette in malattia, non hanno mai ricevuto tamponi neanche loro.
Si spiega così la strage di ricoverati nelle Rsa?
Credo che abbiamo la protezione speciale di San Cottolengo. Una mia amica lavora in una Rsa di Milano, mi ha descritto un quadro apocalittico. Dozzine di anziani che muoiono ogni giorno, le pompe funebri che non possono andare a prenderli per via delle richieste. i morti nei loro letti coperti da un lenzuolo.
Il personale sanitario in che condizioni lavora?
Tre settimane fa abbiamo chiesto alla Regione camici, occhiali, guanti, mascherine. Ci hanno chiesto di quanto materiale avessimo bisogno. Due giorni dopo ci hanno detto che se ne sarebbe occupata la Protezione civile, che a sua volta ci ha comunicato di aver esaurito tutto. I nostri fornitori abituali hanno cominciato a mandare mascherine una tantum, le suore fanno mascherine di gabardine dove mettiamo veline di tessuto. Usiamo dei sovracamici, degli occhiali normali e delle cuffiette e andiamo dai malati positivi ad assisterli. Poi l’Ats, finalmente, ci ha mandato delle mascherine di una azienda che faceva pannolini, mascherine fatte con quel materiale, ma non è certificato.
Questo è un virus che supera ogni difesa se non si ha il materiale giusto. Non si può usare, lo sanno?
Tanto personale è furioso per questo. Dicono: dobbiamo tornare dai nostri familiari a fine turno con il rischio di infettarli tutti? C’è stato un fuggi fuggi del personale e non mi sento di biasimarli.
Come fa a resistere, a non mollare tutto?
La paura c’è e soprattutto la paura di tornare a casa. Ho dei figli e ho paura d’infettarli, ma ho deciso di lavorare lo stesso. Non so dirglielo perché lo faccio. La mia forza è l’esperienza di fede che faccio, vivere intensamente il reale come ha detto don Julián Carrón.
Cosa vuol dire, rischiare di morire?
Non lo vivo come sfida al reale. Ogni mattina mi dico: alziamoci perché è quello che ci è chiesto e allora è una promessa che sicuramente vincerà in nome di un bene più grande. Di questo sono certa.
Che cosa le dà questa certezza? Dove la intravede?
La vedo negli occhi di persone che sono più certe di me, che cedono di meno alla paura. Quando il Papa ha pregato in piazza San Pietro ci siamo bloccati tutti davanti al televisore a guardarlo. Ho visto questa certezza in lui. Ho il bisogno di poter vedere chi è più certo di me, anche se non sappiamo quando finirà tutto. Non basta resistere o tener duro, bisogna avere un punto più grande a cui appoggiarsi.
C’è anche il dramma dei parenti che non possono visitare i loro cari ricoverati?
Sì. Sono tre settimane che non entra più nessun parente. Abbiamo attivato un sistema di video chiamata. Ogni mattina una educatrice si mette in contatto con i parenti che parlano con il proprio caro e lo vedono. È un momento straziante, ci chiedono di trattarli come se fossero nostro papà o nostro nonno, di pettinarli, far loro la barba, di accarezzarli. Poi succedono cose inspiegabili.
Ad esempio?
Qualche giorno fa ero disperata, sono corsa in giardino piangendo e implorando: Signore, aiutaci tu, io non so più cosa fare. In quel momento mi ha chiamato uno che non sapevo neanche chi fosse. Mi dice: siamo una ditta di spedizione e abbiamo qui migliaia di mascherine che erano state ordinate mesi fa dalla Cina, sono qui ferme, le volete? Sono scoppiata a piangere, e ho detto: grazie Gesù.
(Paolo Vites)