Morfologia, clima, emissioni di inquinanti, elevata mobilità, connessioni fitte e densità demografica: “considerando tutti questi fattori, l’unica area veramente a rischio in Italia è proprio quella che è stata colpita dal coronavirus: la Pianura Padana. In Italia non ci sono altri posti così a rischio”. Emanuela Casti, professore di Geografia, direttore del Centro Studi sul Territorio e responsabile del Laboratorio Cartografico Diathesis dell’Università di Bergamo, guida un team di ricercatori che dal 24 febbraio sta studiando diverse banche dati per cercare di rispondere a una domanda semplice ma a cui è molto difficile rispondere: perché il contagio si è manifestato con virulenza soprattutto in Lombardia? L’arma di cui dispone è il mapping riflessivo: in sostanza, anziché spalmare semplicemente i dati su una cartina, la sua équipe di analisti del territorio cerca di gestire e interpretare le informazioni.
La geografia e le mappe riflessive possono aiutare a comprendere il fenomeno coronavirus?
Il coronavirus è per il 50% un problema medico e per il 50% un problema sociale. Inevitabilmente su andamento del contagio, su dove e se sono in rete i focolai di una regione, sull’intensità del fenomeno sono coloro che hanno i dati socio-territoriali e li studiano a poter dare una risposta. Spiegare perché in Lombardia il contagio si è manifestato nelle dimensioni che conosciamo, non può essere lasciato all’intuizione, al buon senso o a considerazioni sulla presenza di una popolazione molto vecchia. Questi dati o buone intuizioni hanno bisogno di analisi scientifiche che li confermino o smentiscano.
In questo lavoro che ruolo gioca il geografo?
A Bergamo, in quanto analisti del territorio, possiamo contare su una banca data che elabora diversi fattori: popolazione, pendolarismo, flussi, inquinamento. La stiamo aggiornando e la incrociamo con i dati sui contagi che arrivano dal ministero della Salute. Così costruiamo un panorama di partenza, che poi analizziamo nelle sue tendenze.
Qual è l’obiettivo di questo studio?
La ricerca, iniziata il 24 febbraio, prevede un aggiornamento work in progress dei diversi dati via via disponibili. Avendo piena consapevolezza sia di quanto la geografia può offrire sia dei suoi limiti, l’obiettivo è che questo insieme di indicatori possano far da base scientifica per una discussione che coinvolga medici, biologi, virologi… L’epidemia da coronavirus è un fenomeno complesso, che può essere affrontato solo in modo interdisciplinare.
Dal vostro studio emerge che il Covid-19 più che le grandi città ha colpito alcune conurbazioni. Perché “privilegia” queste aree?
Questo è vero in tutto il mondo. È stato recentemente pubblicato un articolo di un geografo dell’Ecole Polytecniques Fédérale di Losanna, Jacques Lévy, che ha monitorato la situazione mondiale dell’epidemia Covid-19: partendo dalla differenza tra centri urbani e territori poliurbani, ha scoperto che solo in un secondo momento la diffusione colpisce le grandi città, dove si il numero degli abitanti si densifica. Nella fase iniziale i focolai non partono mai dal centro città, ma dalle conurbazioni.
Oltre ai focolai già partiti, in Italia ci sono altre conurbazioni potenzialmente a rischio di forte diffusione dei contagi?
Considerando morfologia, clima, emissioni di inquinanti e densità demografica l’unica area veramente a rischio in Italia è proprio quella che è stata colpita: la Pianura Padana. In Italia non ci sono altri posti così a rischio.
Perché?
Perché la Pianura Padana è un catino dove l’inquinamento non è dato solo dalle emissioni inquinanti, ma da quanto queste emissioni persistono. L’aumento delle polveri sottili quando c’è bel tempo non dipende dal fatto che le industrie ne producono di più, ma perché tutto ristagna, finché non piove o tira vento.
Questi fattori incidono sul virus?
Ce lo diranno i medici. Noi stiamo cercando di capire, elaborando i dati, quanto può incidere il fatto di vivere nella Pianura Padana, considerata una delle aree più inquinate al mondo, dove si registra un tasso di malattie polmonari più alto che in altre parti d’Italia. E questo può essere un fattore predisponente al virus. Se in Lombardia si vive per 200 giorni all’anno in posti in cui le polveri sottili sono da bollino rosso, quei polmoni sono più vulnerabili a un attacco virale? Non possiamo ancora affermarlo con certezza, ma stiamo raccogliendo i dati comune per comune della Lombardia per tentare di capire. Per ora abbiamo rilevato che i comuni con più alti contagi – a parte qualche piccolo comune – si trovano nella fascia centrale della Lombardia che va da sud a nord con in primo piano Cremona, Lodi, alcuni comuni del bresciano, Bergamo e gran parte della Val Seriana.
“Il modo in cui si diffonde il virus – si legge nella vostra ricerca – dipende anche dal nostro vivere, da come abitiamo il territorio e quindi da come ci spostiamo. La mobilità contemporanea non è paragonabile con quelle del passato”. Dovremo forse cambiare il modo di abitare i territori?
Possiamo cambiare le abitudini della nostra quotidianità, possiamo realizzare politiche meno inquinanti. Nelle grandi città del Nord Europa, da Londra ad Amsterdam, non si costruiscono più garage, perché non si punta più sull’uso delle auto. Da questa “scoppola” speriamo di trarre finalmente un insegnamento su che cosa significhi e implichi davvero l’inquinamento ambientale. Dobbiamo migliorare il nostro abitare contemporaneo, visto che il 55% della popolazione mondiale vive in città, affinché non ci esponga a rischi eccessivi. Non c’è un modello da seguire, dobbiamo prepararci, perché altre epidemie arriveranno.
(Marco Biscella)