Le scuole sono ufficialmente chiuse per coronavirus fino al 13 aprile: ma tutti siamo consapevoli che si tratta solo di una scadenza intermedia e che anche quella del 18 maggio (cui il ministero penserebbe, secondo le anticipazioni che corrono) rappresenta uno scenario ottimistico, perché vorrebbe dire che l’emergenza sanitaria si sarebbe esaurita entro la fine di questo mese. Cosa su cui non so quanti sarebbero pronti a scommettere. Insomma, bisogna cominciare a fare i conti con una prospettiva più radicale: che la scuola, per quest’anno, sia di fatto finita, almeno quella tradizionale fatta di aule e banchi e lezioni in presenza.
Di fronte a questa eventualità, i decisori politici e tutti coloro che di scuola si occupano sanno che ci sono almeno tre questioni da prendere in considerazione fin da adesso:
1) la più urgente, come migliorare e rendere produttiva la didattica a distanza;
2) come gestire la fase della valutazione finale;
3) come, ed in quale arco di tempo, riassorbire gli effetti a lungo termine del vuoto didattico che si sarà comunque prodotto.
1. La didattica a distanza, volenterosamente abbracciata e in qualche modo praticata, stando a quel che si dice, da circa tre quarti dei docenti, presenta almeno tre limiti:
– i docenti hanno improvvisato, ciascuno per sé o quasi, un metodo di lavoro, accantonando da un giorno all’altro un insieme di pratiche professionali consolidate, che fra l’altro fornivano una base comune di linguaggio su cui intendersi al momento delle decisioni valutative finali. Si tratta, se non di validare scientificamente l’empiria odierna, quanto meno di darle un minimo di base comune, che ricostituisca il “fare scuola” come compito collettivo e riconoscibile anche all’esterno;
– i materiali didattici utilizzati sono, in larga misura, quelli tradizionali, sommariamente ripensati, ma certo non ideati per l’uso che se ne sta facendo. È urgente mettere a punto strumenti nuovi (non solo tecnologie) che possano essere funzionali ai nuovi metodi: the medium is the message non è una scoperta di oggi. Ma oggi noi usiamo mezzi nuovi per trasmettere un messaggio che non è accordato con lo strumento. Serve una nuova stagione di studio e ricerca, che non potrà compiersi in tempi brevi, ma a cui bisogna cominciare a pensare da subito;
– con tutti i suoi difetti, la scuola tradizionale offriva, almeno, le stesse opportunità didattiche a tutti. La scuola a distanza è invece eminentemente inegualitaria: nel senso che favorisce chi dispone a casa di attrezzature migliori, di un accesso a Internet veloce, di supporti anche motivazionali di migliore qualità. La più banale delle considerazioni: in una famiglia in cui entrambi i genitori siano in modalità di lavoro “agile” e ci siano due-tre figli che dovrebbero fare scuola a distanza nelle stesse ore, ci vogliono almeno quattro-cinque dispositivi idonei e la fibra ottica. Quanti si trovano in queste condizioni? Il lato positivo è che l’aspetto tecnologico si presta ad essere affrontato e risolto in tempi ragionevolmente brevi, a condizione di metterci le risorse. Ma l’aspetto motivazionale, particolarmente critico nelle fasce deboli della popolazione scolastica, come gestirlo? A scuola ci pensano i docenti, bene o male, a cercare di tenere nel gruppo quelli che hanno la tentazione di sganciarsi; e a casa, chi ci pensa?
2. La valutazione finale. Arriverà un momento in cui sarà necessario prendere una decisione. In quel caso, farà una differenza la circostanza che, prima della chiusura, ci sia stato almeno un mese di “scuola” in presenza: oppure no. Nel primo caso, si può ipotizzare di dedicare quel mese prevalentemente alle verifiche e poi di andare a scrutini più o meno tradizionali, con l’ovvia e neanche tanto sottintesa misura di clemenza indispensabile. Ma, se quel mese non ci sarà, l’alternativa, ragionevolmente, è solo una: unire, ai fini valutativi, questo anno scolastico ed il successivo, rinviando la valutazione amministrativa a giugno 2021.
Naturalmente, questo non è possibile per le classi terminali di ciclo, per le quali bisognerà prendere decisioni ad hoc: relativamente più lineari per quanto riguarda la terza media e la quinta superiore, in cui ci vorrà comunque un decreto legge che riscriva in modo ragionevole la struttura e i contenuti dell’esame e ne affidi la gestione a commissioni interne. Magari con un presidente esterno, a mo’ di foglia di fico per quanto riguarda la legittimità formale.
Ma forse, per una volta, si potrebbe anche sacrificare la legittimità formale alla validità sostanziale della prova: che, se non deve essere un’assoluzione indiscriminata ed ingiustificata, può solo essere affidata a chi i ragazzi li conosce davvero per averli visti crescere nel tempo. La quinta primaria, che non ha esame successivo, dovrà per forza di cose essere “abbuonata” a tutti: se mai affidando ad ipotetiche sperimentazioni di “continuità verticale” il compito di rendere meno indigesta la decisione inevitabile.
3. Resta il problema del “dopo”. Qui, e non è un caso, chi si troverà meglio è la scuola primaria, che invece è la più penalizzata dalla didattica a distanza. Nel breve periodo, infatti, la didattica specifica della scuola primaria, centrata sulla relazione interpersonale diretta, non può essere surrogata da una didattica online, fra l’altro improvvisata. Ma, nel medio tempo, la scuola primaria ha dalla sua la risorsa del tempo disteso con cui lavora nelle stagioni ordinarie. Quel tempo disteso diventa una risorsa quando si tratta di recuperare pause forzate, anche lunghe. Io credo si possa essere più che ragionevolmente fiduciosi circa il fatto che le nostre maestre sapranno, nel giro di alcuni mesi, ricostruire il tessuto didattico e quello della crescita personale dei loro alunni, senza danni importanti.
Diverso è il discorso della secondaria, dove il carattere disciplinare dell’insegnamento e la propedeuticità dei curricoli rendono più difficile costruire il dopo se il prima non è stato consolidato. Giocoforza, sarà necessario riscoprire un vecchio dibattito: quello sui saperi fondamentali, che fu di moda già vent’anni fa e di cui si erano quasi perse le tracce. Ovviamente, non è qualcosa che si improvvisi: ma, se segnali ed indirizzi in questo senso venissero dal ministero in tempi brevi, ci si potrebbe lavorare su un arco temporale di un anno o, ancor meglio, di due.
Per concludere, sarà bene evitare di considerare l’esperienza attualmente in corso come una sorta di “vuoto a perdere”, cioè una parentesi da cui non attendersi molto e, conseguentemente, da non tesaurizzare per utilizzi futuri. Nessuno pensa che, in tempi ragionevolmente brevi, la Dad possa sostituire l’insegnamento in presenza: ma è invece possibile immaginare una realtà ordinaria in cui le due metodologie si integrino e coesistano, magari specializzandosi.
In una tale prospettiva sarebbe opportuno che si riflettesse attentamente su quel che queste settimane ci avranno insegnato e su come metterlo a frutto per il tempo a venire. Magari affidando alla Dad compiti più di tutoraggio e di personalizzazione della didattica rispetto alle lezioni in classe, in cui quelle funzioni risultano inevitabilmente sacrificate.
Quel che è certo è che, nella tristezza dell’ora, viviamo tempi interessanti per quanti si interessano di scuola ed hanno a cuore le sue sorti. Tempi in cui, come accade alle comunità mature nel tempo della prova, si studia e si semina per i raccolti che verranno.