Quando finì la peste del 1630 la città di Venezia tenne fede al voto solenne fatto dal doge in carica Nicolò Contarini e diede il via al cantiere di una basilica dedicata a Maria; basilica che non a caso oggi è nota a tutti come la Salute. Sorge in un luogo strategico della città, vicino alla punta della Dogana, simbolo della sua forza commerciale marittima. Venezia usciva da un’epidemia che aveva decimato la popolazione (il 40% nel territorio del dogado) e l’aveva evidentemente prostrata. Eppure uscendo da quel disastro trovava l’energia per avviare un’impresa colossale, costruendo una chiesa che ancora ci lascia a bocca aperta per le dimensioni e la bellezza: tra l’altro venne eretta su terra rubata al mare grazie a migliaia di pali (oltre 100mila) conficcati nei fondali della laguna.
Perché una comunità alle prese con ben altre emergenze materiali si mette in un’impresa del genere? Nel caso della Salute le risposte sono due: c’era un desiderio di ringraziamento perché comunque la peste era stata sconfitta; e c’era un bisogno di guardare in avanti, senza compiangersi e senza ripiegarsi su se stessi. L’una e l’altra risposta sono frutto di una coscienza collettiva che aveva retto alle tremende frustate della peste.
Evidentemente può sembrare assurdo proporre quella scelta fatta da Venezia come parametro per un Paese come il nostro che, a Dio piacendo, uscirà, si spera presto, dall’assedio del coronavirus. Troppo diversi i tempi, la cultura e anche la fede. Però quella vicenda veneziana qualche domanda la suggerisce. Per esempio, saremo capaci di provare un senso di gratitudine perché l’epidemia alla fine s’è fermata? E che forma prenderà questa gratitudine? È difficile e anche ingiusto dare risposte preformulate, perché la vita riserva sempre sorprese, e può essere che la gratitudine prenda la forma di piccoli gesti di solidarietà e di un’attenzione agli altri che prima non avevamo. Però un dubbio viene: il vissuto di questa lunga quarantena è un mix di ammirazione per gli “eroi” degli ospedali, di paure ma anche di “rimbambimento” per infinite chiacchiere consolatorie, come ha sottolineato Maurizio Maggiani, scrittore scontroso e non allineato. “Temo quanto il contagio, la lenta, penetrante persuasiva idea di una generale infermità”, ha scritto, “come se il paese si fosse messo a letto rimbambito da un’epidemia di esantematiche. Generosamente gli addetti al conforto si ingegnano a titillarci con musiche adatte, programmi televisivi riadattati, benigni consigli di vita, storielle allegre”. È una strategia grazie alla quale tutti si premurano a fornire risposte a cominciare dai virologi, anziché accendere sane domande: e solo dalle domande scaturisce il naturale istinto che fa scattare un senso di gratitudine.
C’è poi l’altra questione posta dall’esperienza veneziana. La Salute viene costruita come affermazione potente rispetto al futuro. La Salute non era solamente un voto per la sconfitta del morbo, ma era un tempio dedicato al futuro della Repubblica. Per questo era stata collocata in quel punto nevralgico che esprimeva la forza economica della città e la riaffermava davanti al mondo che si affacciava sulla Laguna.
Sul pavimento al centro della Basilica era stata messa una scritta, con la posa della prima pietra, già nel 1631: “unde origo inde salus”, nell’origine la salvezza. L’origine era legata al “patronato” della Vergine sulla città. Così si capisce come le due sfere in realtà si congiungessero: il gesto del ringraziamento era la base che permetteva di immaginare e costruire il futuro.
Pensiamo alla lezione di Venezia abbassando il volume delle tante chiacchiere di questi giorni…