Il 2 aprile l’Ifo institute tedesco ha pubblicato un dettagliato report (Making the Fight against the Coronavirus Pandemic Sustainable) in cui si cerca di rispondere concretamente alla questione della convivenza economica e in particolare dell’attività delle imprese con il coronavirus. Un tema che in Italia, che pure per prima ha approvato misure restrittive, fatica a emergere positivamente con una contrapposizione sterile e spesso violentissima nei toni tra quelli che vorrebbero salvare l’economia e quelli che vogliono salvare vite. Un approccio che evidentemente non ci porterà particolarmente lontano.
Prima di addentrarci nel report vorremmo dare un piccolo esempio. Ieri il Corriere della Sera riportava l’esperienza della fabbrica in cui si produce una nota marca di pasta. L’imprenditore spiegava come il lavoro fosse stato riorganizzato e le operazioni di sicurezza “maniacali” messe in atto dallo stabilimento. Un esempio, certo di un’azienda “essenziale”, che non si capisce perché non possa essere riprodotta in stabilimenti dove magari lo spazio per persona è quello di un ampio trilocale. Anche quando la produzione “non è necessaria”. La politica non può non esimersi dalle proprie, certamente scientificamente informate, responsabilità perché il rischio, si capisce, non potrà mai e poi mai essere zero.
L’Ifo suggerisce alcune misure concrete e, vi anticipiamo, di grandissimo buon senso. Tra queste: formazione sull’uso delle misure igieniche e sugli strumenti di protezione, test ad ampio spettro per monitorare la diffusione del virus e l’immunità. La direzione è in questo caso quella in cui procede a passi speditissimi il Veneto spesso contro le direttive “centrali”. Ancora: produzione nazionale di massa di mascherine e protezioni e approvvigionamento di medicine; adozione di strumenti di monitoraggio.
Si parla anche di differenziazioni regionali. Un tema che da noi è tabù. Le regioni con minori casi e una sanità non satura dovrebbero, secondo l’Ifo tedesco, riaprire prima e più facilmente. Per questo si prevedono anche delle task force nazionali e soprattutto regionali che possano meglio monitorare la situazione sanitaria e sul campo, soprattutto negli stabilimenti, delle diverse aree.
Questa è una strategia degna della prima manifattura d’Europa. La tragedia italiana è un Governo che si è arreso e che pure avrebbe tutte le risorse della seconda manifattura europea. Settimane di ritardo per una produzione nazionale di mascherine, di tamponi, di reagenti. Questo anche in presenza di interi distretti biomedicali e di multinazionali della diagnostica. La produzione di autocertificazioni invece continua.
Brilla solitaria la stella del Veneto che tra pochi giorni, a buon ragione, rivendicherà il diritto di riaprire. E potrà farlo avendo dimostrato di saper monitorare e controllare i rischi. La differenza tra il Veneto e il Governo nazionale non è “l’industria” ma la politica. Una politica che sa programmare e non vive alla giornata rincorrendo o spesso producendo l’emergenza; rimarranno nella storia i tre esodi dal nord al sud. Una politica che sa prendersi responsabilità. Come spiegare infatti che, unica in Europa, l’Italia ha chiuso persino le aziende di componentistica per l’agricoltura? O che neppure in questa fase si riescono a pensare strumenti flessibili per l’agricoltura? Oppure la chiusura di capannoni dove letteralmente ci sono molte decine di metri quadrati a disposizione per ogni persona? Si impedisce persino di svuotare i magazzini pieni di piastrelle italiane mentre in Spagna partono regolarmente. In alcuni casi questo è accaduto anche con i dispositivi di sicurezza messi a disposizione dall’azienda.
È la gestione dell’emergenza economica la cartina al tornasole della competenza del Governo non certo quella sanitaria. Ma d’altronde cosa si può aggiungere se l’unica misura messa in campo è un prestito che arriverà dopo due o tre lunghi passaggi burocratici a imprese costrette alla chiusura e senza clienti? Prestiti per produrre e vendere cosa per l’esattezza?