“Invincibile arma dei cristiani”: così San Carlo Borromeo definiva la croce di Cristo. Un’arma talmente potente da dover essere invocata anche – anzi, soprattutto – in quei momenti disperati della storia umana che sono le guerre e le epidemie.
Carlo Borromeo, negli anni del suo episcopato a Milano, si trovò a essere guida di un gregge che, tra il 1576 e il 1577, era stato colpito da una terribile epidemia di pestilenza, che il Manzoni definì proprio “peste di San Carlo”. La vicinanza dell’arcivescovo agli abitanti della città fu costante e instancabile, e si concretizzò in varie opere di sostegno spirituale e materiale nei confronti della popolazione in difficoltà.
L’arma principale del santo per combattere il flagello fu, anche in questo caso, la croce di Cristo, destinataria delle preghiere di Carlo e del popolo. Non a caso, egli fece erigere una serie di colonne di pietra sormontate da una croce nelle principali piazze e incroci della città, per permettere agli abitanti di ogni quartiere di partecipare alle Messe affacciandosi alle finestre delle proprie abitazioni.
La croce, principale vessillo della Passione, fu destinataria delle preghiere del Santo anche in un modo che potremmo definire “indiretto”: Carlo, infatti, fece voto di recarsi a venerare la Sindone – che della Passione è lo specchio fedele – quando la peste fosse finita.
In quel tempo, la Sindone era custodita presso la Sainte Chapelle della città francese di Chambéry, che per lungo tempo aveva costituito il fulcro politico e amministrativo di Casa Savoia. Venuto a conoscenza del voto formulato dal Borromeo, il duca Emanuele Filiberto aveva deciso di trasferire la Sindone da Chambéry a Torino (cogliendo così l’occasione per spostare la più importante reliquia dinastica in quello che era diventato il nuovo fulcro del ducato, la cui orbita aveva iniziato a gravitare al di qua delle Alpi, verso una penisola che offriva ampie possibilità di espansione).
Così, nel 1578, Carlo Borromeo si recò a Torino per contemplare l’immagine che recava impressi su di sé i segni della salvezza dell’umanità.
Non fu questo l’unico episodio in cui la Sindone divenne mezzo preferenziale per far giungere al cuore di Dio le preghiere dei popoli flagellati dalle epidemie.
Già nel 1505, in occasione del dilagare della peste in Franciacorta, la duchessa Claude de Brosse de Bretagne scrisse a Margherita d’Austria, vedova del duca di Savoia Filiberto II, di “venire a vedere la Sindone alla quale vi ho raccomandato e che le piaccia proteggere voi e tutti quelli della vostra casa dall’epidemia”.
Nel 1522, il duca Carlo II fece voto di recarsi a piedi a Torino a venerare la Sindone (promessa alla quale ottemperò, recandosi in pellegrinaggio a Chambéry con 12 membri della sua corte).
Anche in occasione della peste del 1630 la città di Torino affidò le proprie sorti al Signore attraverso l’immagine della Sindone. Nel 1632, cessata la pestilenza, 12 consiglieri cittadini si recarono in pellegrinaggio presso la reliquia, portando in offerta un bassorilievo in argento sbalzato, raffigurante la Sindone sostenuta e attorniata dai santi protettori della città.
Trentun anni dopo, sempre come ringraziamento per la fine dell’epidemia, fu organizzata una processione con tutte le reliquie della città, compresa la Sindone.
Nel 1694 si celebrò a Torino l’inaugurazione della Cappella della Sindone; in quello stesso anno un’epidemia di polmonite stava flagellando alcune zone della Germania. Il Nunzio di Roma a Torino, nel riferire dello svolgimento della cerimonia di intronizzazione del Lenzuolo, precisò che si era evitata una diffusa comunicazione dell’evento, al fine di limitare le presenze in città e il conseguente affollamento di popolazione, aggiungendo che “si prega adesso dal Signore Iddio che ne liberi per i meriti del sangue suo sparso in quel santo Lenzuolo, come si spera per sua infinita bontà, e misericordia”.
Il ruolo della Sindone in tutti questi casi era dunque di intermediazione tra la Terra e il Cielo, tra le miserie e le sofferenze degli uomini e la misericordia infinita del Creatore.
La Sindone era considerata un oggetto il cui valore va ben al di là della sua natura (diremmo oggi della sua “autenticità”), in quanto grazie all’immagine impressa su di esso è possibile, per l’umanità sofferente, contemplare le sofferenze di cui anche Cristo si è fatto carico per la salvezza di tutti.
Anche oggi, di fronte a un flagello che non si chiama più peste, ma Covid-19, la Sindone riacquisisce questo ruolo fondamentale: il Sabato Santo, l’arcivescovo di Torino e custode del Lenzuolo, monsignor Cesare Nosiglia, accompagnerà i fedeli di tutto il mondo nella preghiera e nella contemplazione dell’immagine dell’Uomo torturato e crocifisso.
Un’immagine immediata di dolore e agonia, che richiama costantemente i dolori e le agonie di tutti gli uomini, specialmente oggi, in cui le nostre giornate sono accompagnate dal silenzio, da notizie strazianti di sofferenza e morte, dall’impossibilità di ricevere l’unica vera consolazione possibile che è Cristo Eucarestia.
L’icona del Sabato Santo – come l’ha definita Benedetto XVI – ci ricorda che Cristo non si è fatto uomo solo per farsi vicino alle nostre sofferenze; si è fatto uomo per portare sulle spalle la croce pesantissima dei nostri peccati. Per ricordarci, quindi, che il Padre non ci abbandona nel momento del dolore e dell’errore, ma soffre con noi fino a regalarci il Suo sangue.