Molto più assimilabile ad un dipinto surrealista che neanche ad un’opera dove si celebri una solenne liturgia, questa Deposizione del Rosso a Volterra (1521) suggerisce un fremito di turbamento cui si mescola il fascino di una segreta attrattiva.
Forse sarà per via di quella luce – così fredda e artificiale – che aggredisce la scena e, spiovendo sui personaggi, ne sorprende quasi di soppiatto le mosse; o per quei corpi così provocatoriamente scolpiti: travi portanti di un’architettura fantasma la cui imponenza si staglia solitaria contro un cielo troppo perfetto e lontano per potersi confondere con la terra; una terra desolata e lunare le cui asperità, appena riconoscibili all’orizzonte, si scontrano con gli incerti bagliori di quell’ora suprema drammaticamente sospesa fra tempo ed eternità. Certo è che a dominare la tela è un clima di cupa tragedia che si consuma come sopra un palcoscenico: sembra infatti prevalere, sull’avvenimento, una sorta di finzione teatrale guidata con abile maestria da un sapiente regista. Ogni figura si colloca così al centro di questo singolare scenario giocandovi comunque il ruolo di protagonista: arrampicata dietro le quinte, l’ossuta sagoma di un vecchio scruta, con arcigna severità, i movimenti dei singoli attori quasi a verificarne l’efficacia.
Una dinamica fissità coglie nell’istante di massima tensione i personaggi: dagli sgherri trapezisti che in un grottesco gioco acrobatico sostengono il peso inerte del Cristo morto, lo sguardo precipita sulla disperazione di Giovanni: amari singhiozzi ne scuotono l’imponente figura che, ai margini della tela, volge le spalle alla croce quasi volesse sottrarsi all’evidenza del dato. Alla sagoma ripiegata dell’apostolo fanno da contrappunto, sulla sinistra, le pie donne: silenziose e smarrite sostengono in un abbraccio che non riesce ad essere totale, la Vergine Madre.
Maria, il capo abbandonato sotto un velo scuro, sembra definitivamente vinta dal suo proprio dolore: è così che subisce, senza in alcun modo ritrarsi, l’impeto voluttuoso della Maddalena mentre le si offre in ginocchio come a prolungare – nel vincolo d’affezione alla madre – il legame lacerato col Figlio. Scolpita nell’abito rosso dalla scollatura profonda, i capelli stranamente raccolti nell’elaborata acconciatura, la peccatrice costituisce, anche per la postura in cui l’autore ha scelto di ritrarla, l’elemento unificatore di tutta l’opera: e non soltanto perché in essa la scena – simmetricamente divisa dal legno della croce – ritrova il suo cardine portante, ma anche perché, fissandosi su di lei, lo sguardo riesce poi a farsi largo in tutto quel groviglio di corpi che, ingombrando il dipinto, rischia di soffocarne il respiro vitale.
Addossate alla croce e disposte in maniera da creare uno spazio prospettico altrimenti inesistente, le tre scale consentono anch’esse di riordinare la scena e di suggerire allo sguardo un percorso guidato.
Le membra dei personaggi, le loro scolpite muscolature si accendono di luce sinistra, mentre lo sguardo viene tutto quanto assorbito dal corpo di Gesù privato ormai della sua linfa vitale. Anche la smorfia di dolore che ne altera i lineamenti del volto, somiglia più ad un ghigno dissacrante che all’immagine dell’agnello, vittima redentrice immolata per gli uomini.
Non si è compiuto dunque per Rosso Fiorentino il disegno, sia pure misterioso, della salvezza. In tutta la tela vibra una tensione irrisolta all’origine, si respira un insensato sgomento; un’ultima estraneità che non consente ai personaggi di potersi incontrare, confortare, sorreggere.
Anche quel giovinetto, l’unico forse ancora capace di fissare qualcosa che non sia la propria stessa disperazione, sembra piovere addirittura da un altro dipinto. Ci colpisce, della sua sagoma michelangiolesca, il nobile ardimento e la sobrietà della postura. È proprio questo sguardo allora, finalmente reale, che riscatta la grottesca finzione e riapre la ferita, ahimè troppo amara, della libertà che – posta di fronte al Fatto – lo narra, ma non lo riconosce.