Mettiamoci d’accordo una volta per tutte: chi può ragionevolmente credere che il meccanismo produttivo funzioni sulla scorta di un automatico succedersi di produzione-consumo? “Senza soldi non si canta messa”: occorre danaro affinché mediante l’acquisto il valore prodotto si trasmuti in Ricchezza. Già, il danaro!
Se il reddito è insufficiente si dovrà utilizzare il risparmio. Se il risparmio non ce la fa più si deve utilizzare il debito. Se il debito cresce oltre la capacità di ripagarlo, viene allora a mancare il quibus: il meccanismo si inceppa. Il valore prodotto resta ricchezza inespressa, non è cosa da poco.
Se manco al mio ruolo di acquirente, agli altri mancheranno profitti, stipendi, salari, stock-options; mancheranno pure gli introiti fiscali allo Stato; chi potrà acquistare il debito nazionale? Questo è quanto.
I soliti bene informati, dati alla mano, affermano che il risparmio degli italiani – rispetto ai colleghi europei e americani – resta ancora elevato mentre il debito risulta entro limiti fisiologici. Insomma, dobbiamo continuare a consumare. Abbiamo scorte a cui attingere; per la patologia del debito c’è ancora tempo. A conti fatti gli informati non hanno tutti i torti: noi non avremo scampo. Ma c’è un MA grosso come una casa a cui non potremo indefinitamente sottrarci, con cui, anzi, in questi tempi di vacche magre, potremo trovare trastullo e sprone.
L’esperienza umana dell’acquisto-consumo che sembra esaurire il nostro compito mostra la corda. Si parte dall’affanno economico, poi l’inquinamento come risultato della consumazione; il ruolo acquisitivo della nostra azione, svolto tutto al singolare, impoverisce le relazioni umane; “l’adesso” della nostra azione ci imbraga in un eterno presente, vieppiù pandemizzato negando il futuro. Non è un bel vedere. La pratica dilettante del consumare non basta più: occorre uno scatto d’orgoglio, competenza e mestiere.
Consumatori sì, ma professionisti: non c’è altra strada. L’insostituibilità del nostro ruolo lo suggerisce; la responsabilità della nostra azione lo impone: diamoci da fare. Dalla vita spesa a fare la spesa per produrre ricchezza, alla vita impiegata a scovare benessere e distribuirlo. Il passo non è breve, non è facile ma risoluto: si può fare. Oltre moneta e merci, altro.
Niente paura: ricchezza + sintonia con il mondo e le cose, condivisione con i senzienti. Questo fa virtuoso il nostro esercizio, autoritario il nostro dire. Se la nostra capacità di spesa non basta, siano altri a spendere. Acquistare le nostre risorse in offerta, quelle che muovono la nostra azione, tanto appetite da lorsignori. Poi, costretti a marcare una pratica austera, produciamo domanda di merci: potremo qualificare l’offerta e controllare i prezzi.
Questo, in soldoni, quanto fare per agire. Questa l’espressione compiuta del nostro lavoro. Già, il lavoro: una rinnovata dignità per il nostro esercizio, un compito edificante per il nostro fare, pure relazioni solidali tra gli astanti.
Dulcis in fundo: recuperare il potere di acquisto smarrito nella pratica dilettante.