Già domenica delle Palme, senza la tradizionale riunione dinanzi alle chiese d’Italia, si era intuito quanto grande sarebbe stato il vuoto che si stava per aprire. L’assenza dei riti della settimana santa, le mancate processioni del venerdì, i mancati gesti collettivi condivisi, hanno reso questa nostra Santa Pasqua straordinariamente mesta.
Non mi meraviglierei se alla fine, quando arriveranno le cifre, si verrà a scoprire che anche la permanentemente vituperata società dei consumi, quella delle colombe con lo zucchero, con i dolci locali, le uova di cioccolato e gli spumanti, ne sia uscita straordinariamente ridimensionata. Senza la festa religiosa, senza le campane del resurrexit anche la colomba perde senso. “Come cantare i canti del Signore in terra straniera?” recita il salmo: e a ragione!
Perché è proprio questa nostra terra che non possiamo percorrere né attraversare, sulla quale non possiamo passeggiare, che non è più nostra; che lo vogliamo o no, è questa terra ad essersi fatta estranea.
Il cattolicesimo è stato colpito al cuore ed a ben poco servono le dirette televisive da Piazza San Pietro, per quanto arredata da una splendida regia televisiva. Il Papa ed il Crocifisso sono soli e ci fanno compagnia nella nostra solitudine. Siamo soli, senza i nostri riti, senza i nostri abbracci reciproci: è vietato. È vietato tutto, incontrarsi, stringersi le mani, baciarsi.
La stessa paura diffusa dai media ci è necessaria per restare cauti, per non sbagliare, per non mettere in crisi la nostra salute e, soprattutto, quella dei nostri cari. Nessuno ci impedisce di pregare, di invocare e di chiedere, ma dobbiamo farlo da soli. L’anima della Chiesa vivente, che è il suo popolo riunito in preghiera, ci è semplicemente impraticabile.
Salvo tentare una celebrazione con la strategia delle distanze e delle mascherine: una penitenza terribile e con gravi rischi di non essere governabile; per ritrovarci ad essere accusati, il giorno dopo, di superficiale e colpevole irresponsabilità.
Perché fingere che va bene? Perché ostentare una speranza quando questo virus, assieme ai riti della settimana santa, ci ha tolto anche il conforto della comunità, il saluto della pace, l’ostia consacrata, la festa della riconciliazione con il meglio di noi stessi, con una bontà ed una purezza che potevamo riconquistare insieme agli altri? Non va nulla bene, veramente nulla, cavolo!
Separati come siamo gli uni dagli altri: ricacciati in casa da un nemico invisibile, perfettamente all’altezza della nostra scienza che non riesce a leggerlo ed a combatterlo, che non ce la fa e infatti sono i medici e gli infermieri a morire.
È la notte della scienza e non ci resta che attendere che il vaccino venga trovato e nell’attesa, attraverso le analisi sierologiche, sperare di spezzare le catene almeno a quanti, manifestatamente non colpiti dal coronavirus, possano correre a far ripartire le fabbriche, prima che la crisi economica si scateni ed i poveri da cento diventino tremila.
Adesso vediamo veramente quanto pesi l’assenza della Chiesa vivente; quanto, con la sua assenza, trascini con sé almeno i tre quarti della società intera. Non ci manca l’aperitivo o la gita fuori porta. I supermercati aperti ci danno la possibilità di imbandire la tavola come sempre. Nei piccoli centri le famiglie possono riunirsi semplicemente attraversando qualche vicolo per raggiungere la casa dei genitori o quella dei fratelli e festeggiare insieme. Ma manca la gioia spirituale che ne faceva da base e che la parrocchia, con la sua festa, proclamava.
La festa dei cristiani reggeva il mondo, permetteva la gioia del mondo, anche di chi non crede. Era la nostra campana di speranza, la nostra solenne dichiarazione di fede nella vita che rinasce. La risurrezione di Cristo è la risurrezione del mondo, è la proclamazione solenne di una vita che riprende, ancora più bella di prima.
Certo, la nostra fede ci dice che è ancora tutto lì; ci attesta che Cristo è risorto (ci mancherebbe); tuttavia non possiamo proclamarlo come nel passato, non possiamo cantarlo e affermarlo, solennemente e pubblicamente, degnamente.
Caro Santo Padre, stiamo apprendendo la solitudine. Per di più qualcuno tra noi ha appreso la solitudine del Gòlgota, quella di quanti sono morti da soli, commuovendo medici e infermieri. Quella delle bare di chi non ha nessuno – la vera povertà è sempre una povertà relazionale e non meramente economica – e viene seppellito nelle fosse comuni. Ma anche quella di quanti soli non erano ed avevano costruito un mondo di affetti. Anche le bare di quest’ultimi, che i loro cari avrebbero certamente accompagnato, sono scivolate via, trasportate dai camion dell’esercito, nella notte.
Eppure, proprio questo mondo alla rovescia, questa eterna notte degli ulivi ci permette di cogliere e di comprendere veramente la solitudine di Cristo, la desolazione dei suoi, la paura e la fuga dei discepoli, lo smarrimento delle vedove. Questa volta non c’è da immedesimarsi in alcunché. La morte c’è e la fa da padrona nelle nostre strade vuote, nel desolante splendore delle chiese rimaste senza ammiratori, nel bello delle opere che non hanno più occhi che le ammirino, nelle emozionanti passio che non hanno più orecchie che le ascoltino.
Questa è stata la solitudine di Nostro Signore e dei suoi, adesso lo sappiamo. Non immaginavamo che fosse così grande da riempiere il mondo intero, non solo quello dei cattolici. In questa società “che non dorme mai” sperimentiamo il silenzio delle solitudini, l’angoscia per chi ci è lontano, il silenzio riempito da un tempestio di video-telefonate, per chi può.
Allora anche questa è un’esperienza che ci restituisce la cifra alta della vita e delle nostre eredità cultuali, del nostro patrimonio di gesti, di preghiere e di doni. Eravamo legati al cielo e non ce ne eravamo accorti. Le poche persone scelte per essere accanto al Santo Padre hanno recato dietro di loro il desiderio di un mondo in attesa; perché rinunciare alla Resurrezione ci è semplicemente impossibile, perché se Egli non fosse risorto, “vana” sarebbe la nostra speranza.
Doveva mancarci l’essenziale affinché capissimo che nulla è banale e che il nostro mondo di cattolici redenti dalla Pasqua celebrata e condivisa dalla comunità in preghiera ci è prezioso come l’aria.