Oggi doveva essere, secondo un calendario organizzato da tempo, il giorno della Certificazione linguistica di latino, iniziata nel 2014 a Milano e poi estesa a tutta la Lombardia. Alunne e alunni sono entusiasti di questa novità e i docenti l’hanno accolta, in definitiva, bene.
Certo, desta ancora sicuramente curiosità un accertamento linguistico che si riferisce alle più famose certificazioni di lingue moderne. Dietro c’è un grande lavoro di docenti e professori universitari, e la convinzione di fondo che il latino serva a qualcosa, anche nella società liquida di Bauman, per una generazione cresciuta con videogiochi sempre più accattivanti e una vita occupata dai social media.
Ma l’epidemia ha azzoppato anche questo grande rito collettivo che si è esteso a macchia di leopardo un po’ in tutto lo Stivale e ha finalmente trovato, nel giugno 2019, una sua consacrazione sull’altare della cultura con il protocollo di intesa tra Miur e Cusl, cioè la Consulta universitaria degli studi latini.
Ormai è chiaro che il nostro Paese, tra i tristi primati che detiene, ne ha uno particolare di cui andare, ogni tanto, fieri: la cultura classica si respira nelle scuole d’Italia e i grandi del passato rivivono nelle pagine che i liceali traducono, con un po’ di fatica; eppure nella Certificazione di latino la traduzione è bandita, perché tradurre non è una modalità di accertamento usata in quelle di inglese e così via.
Il “Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue” (Qcer) moderne è il faro di riferimento delle Certificazioni e lo sforzo di questi anni è stato quello di “adattare” i livelli A1, A2, B1, B2 alla lingua dei Romani che non si parla, di solito: C2 è il massimo grado di una conoscenza della lingua, che possiede per convenzione il parlante nativo. Nella Certificazione di latino, per come è stata portata avanti nella Regione Lombardia, sotto la guida del professor Massimo Gioseffi dell’Università degli Studi di Milano e del professor Guido Milanese della Cattolica di Milano, non vi è la traduzione, che costituisce il modo più abitudinario dei docenti di valutare gli alunni, né la produzione orale: parlare, insomma, rappresenta ancora un tabù per molti, sebbene gli appassionati locutori dell’idioma ciceroniano stiano aumentando in maniera esponenziale.
Ma la Certificazione è una gara di bravura? No, e lo si legge con chiarezza in una delle Faq pubblicate sul sito dell’Ufficio scolastico regionale della Lombardia: “Qual è la differenza tra la CLL e un certamen o altre competizioni nell’ambito della cultura classica (come per esempio le Olimpiadi)? È importante precisare che la CLL non è una competizione tra studenti o tra istituzioni scolastiche, ma una sperimentazione volta a comprendere e stabilire quale sia il livello di competenze acquisito dagli studenti in vista del passaggio da una fase di sperimentazione regionale a una di piena attuazione della certificazione nazionale”.
Ma all’appello di questa sperimentazione manca quest’anno. In tutta la Lombardia si sarebbero messi in gioco circa mille aspiranti latinisti, che oggi si sarebbero cimentati con un autore fuori dal canone scolastico, perché il latino e la latinità è sopravvissuta oltre alla sua dimensione di contingenza storica, trasformandosi, nel corso dei secoli, in un modello culturale, cioè nella classicità e poi nel classicismo, nelle manifestazioni linguistiche, letterarie, filosofiche, artistiche e giuridiche.
Se l’apprendimento del greco antico è stato considerato, nel periodo compreso tra il XV e XIX secolo, “una specie di ornamento più che un’acquisizione indispensabile all’uomo di cultura”, centrale è stato invece il ruolo culturale ed educativo del latino. Come si esprime la studiosa francese Françoise Waquet, autrice del saggio fondamentale Il latino. L’impero di un segno (XVI-XX secolo): “Dal Rinascimento agli anni centrali del Novecento, la storia della cultura occidentale può essere scritta nel segno del latino. La stessa lingua regnò nella scuola, si fece sentire nella chiesa, almeno nei paesi cattolici, e sino al XVIII secolo fu il veicolo principale del sapere nelle sue forme dotte. Anche quando il latino perse di importanza, per esempio nella scuola degli anni intorno al 1950, rimase comunque, e dappertutto, un elemento del contendere […]. A questo punto si pone in tutta evidenza una domanda: a che scopo il latino? Se la padronanza della lingua non era il vero obiettivo da raggiungere, per quali ragioni si proseguì, e per un lungo periodo, a studiarlo? Cosa ci si attendeva da questo studio, e come lo si giustificò? Al di là degli effetti indotti dal suo insegnamento, quale fu il ruolo assegnato alla lingua di Roma nella società moderna? Insomma, tra funzionamento e ragion d’essere, tra pratiche e discorsi, tra realtà e rappresentazioni, che legittimità aveva ormai il latino? Il ‘problema del latino’, lo si sarà capito, non può essere risolto nel solo dibattito pedagogico. Converrà a questo punto cambiare prospettiva, se si vuole cogliere pienamente ciò che, nel mondo occidentale, volle dire il latino”.
Anche oggi il latino, lingua millenaria, avrebbe celebrato la sua “vittoria” con la certificazione delle “concorrenti” più moderne. Sarà per il prossimo anno.