La pandemia ha cambiato radicalmente i nostri stili di vita, amplificando o mettendo in secondo piano gli usuali valori di riferimento della cosiddetta normalità.
È esperienza comune che i più grandi cambiamenti avvengano per crisi; noi stessi infatti, dal punto di vista psicologico ed esistenziale, cresciamo “per crisi”.
Sigmund Freud mette la crisi a fondamento dello sviluppo della persona: i traumi sono conflitti che vanno guardati, accettati, personalizzati. La crisi è questa catarsi: siamo chiamati ad attraversare l’esistenza accettando di venire costantemente e progressivamente rimessi di fronte alle scelte della vita.
Il virus sta attaccando la nostra salute, ma soprattutto sta mettendo fortemente in discussione la capacità che la nostra società ha di dare risposte di senso che siano convincenti; sta sovvertendo convinzioni che, fino a poco fa, o erano politicamente corrette o assolutamente incontrovertibili.
Si è continuamente investito, anche economicamente, su tutto ciò che preservasse la longevità della vita a detrimento della sua qualità e del suo senso. Si è privilegiato il “quanto” sul “come”, insomma, sospendendo così ogni giudizio e interrompendo la ricerca del vero. Avremmo tutti preferito che Ulisse fosse rimasto nella sua residenza azzurra di Itaca a godersi una confortevole vecchiaia.
Parafrasando Cormac McCarthy, “siamo un paese per vecchi” e il macabro bollettino dei caduti ce lo ricorda in maniera rigorosa e quotidiana. L’esito di questa pandemia, se tutto va bene, è che moriremo noi padri e i padri dei padri. Se tutto va male, come in guerra – e questa non è una guerra, non essendoci un nemico (il virus infatti è solo l’esito di un sovvertimento dell’ordine biologico) – moriranno i giovani, che è il dramma di tutte le guerre. Vogliamo forse ritornare, per un attimo, con il pensiero all’egoismo di generazioni che chiedevano a ragazzini di diciotto anni di saltar fuori dalle trincee per andare incontro a morte certa, impartendo ordini dalle loro comode stanze di comando? Nella sua drammaticità questo virus, invece, non sovverte l’ordine naturale delle cose: muoiono prima i vecchi, e i giovani, che rappresentano la speranza di un popolo, sopravvivono.
Nella semplicità di questa considerazione, pur nel dolore che questa porta, siamo costretti però a recuperare la capacità di passare ai nostri giovani la responsabilità di una ricostruzione, che sia rispettosa finalmente dell’ordine della vita e che non censuri la morte e la malattia.
Si è messo a tema sufficientemente l’assenza di paternità, la debordanza protettiva della maternità e un’incapacità tutta adulta di passare riferimenti solidi ai propri figli. Che potenzialità straordinaria stiamo scoprendo in questo periodo che ci scuote a tal punto da costringerci a far vedere ai nostri figli, ai nostri giovani, cosa significhi aver coraggio, come si affronta la paura, come è possibile dar senso alla fatica. E questo vale più di mille parole, più di centinaia di libri di psicanalisi attorcigliata. Dovevamo arrivare alla pandemia per ridestarci e per preoccuparci della necessità che i nostri ragazzi ereditassero un modo di interpretare il mondo attraverso l’esempio… “Educare nell’emergenza” significa quindi avere come prima preoccupazione che i nostri figli vedano come si vive e anche come si muore, occorre indicargli delle esperienze positive che – non preoccupatevi – sapranno sicuramente riconoscere. Di necessità virtù: l’Ordine degli Psicologi ha opportunamente sottolineato che, se parliamo di salute, dobbiamo affrontare il tema del disagio psicologico ed antropologico che si sta generando nel dramma. Gli psicologi e gli educatori sono chiamati a sperimentare, e a letteralmente inventarsi, nuove forme di comunicazione e di intervento nelle comunità, nelle carceri, nei nidi, nelle famiglie, nelle Rsa.
Questo è il tempo dell’audacia e dell’accettazione del rischio che è insito in ogni azione e in ogni cambiamento. Quanto è stata tiepida la proposta adulta, quanto la cattiva pedagogia si è nel tempo trasformata nella pratica dell’assecondamento? Il compito dell’adulto è di accettare che i giovani corrano dei rischi, non auspicando per loro una vita di disimpegno segnata dalla mercificazione capitalista.
L’assenza di proposta educativa genera mostri e chi lavora sul campo, psicologi, insegnanti ed educatori, raccolgono quotidianamente un disagio, spesso rimosso, che è fatto di ansie, di disturbi alimentari, di crisi depressive, di panici incontrollati. Soprattutto la scuola ha cercato di etichettare la sofferenza senza incontrarla realmente: Dsa, Adhd, Bes non sono che acronimi del fallimento educativo. La scuola, non dimentichiamolo mai, è innanzitutto un luogo e uno spazio dove avviene l’incontro fra il maestro e l’allievo e, in questi tempi di didattica online, certo utilissima e istruttiva, è fondamentale che, appena sarà possibile, i tecnici dell’istruzione, i professionisti dell’apprendimento, riscoprano la loro primaria competenza: la capacità di stabilire rapporti mostrando “come” si sta al mondo nel tempo dell’emergenza e del dolore.
Educare nell’emergenza, inoltre, vuol dire, per chi educa, mostrare che “la crisi della globalizzazione è la vendetta della realtà” e che incontrare la diversità non implica misconoscere la propria identità culturale, morale e religiosa. Da quanto ci sta capitando si riparte: siamo chiamati a non aspettare che il mondo venga da noi, ma ad andare noi verso il mondo, occorrerà rivedere il tema dell’integrazione e dell’inclusione, torneremo ad essere missionari, perché non saremo più “la terra dei sogni”.
Sullo sfondo di un progetto di ricostruzione di legami spezzati, educare nell’emergenza significa, anche e soprattutto, recuperare il valore della generatività. Nel quotidiano memento mori, a cui l’epidemia ci sta costringendo, si rende trasparente ciò che nella vita è realmente importante: quanto le nostre radici si originino nelle relazioni famigliari che sono state l’unico vero argine alla follia collettiva. Quindi educare alla generatività vuol dire esortare i giovani a non procrastinare le scelte, a non dilatare nevroticamente i tempi della natura e a investire finalmente nella vita. La quarantena, nella sua ineluttabilità, ha ricomposto le generazioni e da ciò deriva necessariamente una prospettiva di intervento, anche politico ed economico, per il futuro.
Queste sono solo alcune delle grandi sfide: il valore della solidarietà rispetto a quello della competizione sociale, il concorso al bene comune, il recupero della propria identità culturale, la presenza di adulti coraggiosi e competenti, la capacità di esprimere visioni profetiche e conseguenti azioni nell’ambito della scuola, dell’educazione e della politica. La vera emergenza è di conferire senso a quanto sta succedendo, affinché i nostri figli possano raccogliere un’eredità che permetta loro di abitare una terra drammatica, ma non desolata. Solo così, tutto quanto stiamo vivendo non sarà una maledizione, ma un’opportunità.