Il 16 aprile 2020, in mezzo alla quarantena che ha chiuso il mondo in casa per difendersi dalla pandemia di coronavirus, si è spento lo scrittore cileno Luis Sepulveda. Era ricoverato a Oviedo, capoluogo del principato delle Asturie, in Spagna, ed è stato raggiunto e colpito tragicamente dal virus stesso che sta cambiando la vita a miliardi di persone, facendola perdere a troppe.
Viveva nelle Asturie dopo essere passato per Amburgo e per Parigi, e aver vissuto a lungo e intensamente in molte parti del mondo, persino tra gli indios dell’Amazzonia, i diseredati della Bolivia o della Patagonia.
Era partito dalla sua patria, il Cile, dopo che per la sua attività politica aveva subito l’arresto da parte del regime di Pinochet. Era stato imprigionato e torturato. Per tutta la vita il suo impegno in favore della democrazia e del riscatto delle classi più povere non verrà mai meno.
“Ribellione” era una delle sue parole d’ordine, tramutato in un vero e proprio essere politico della persona. Meraviglioso come lui la declinò: scrivendo storie, tra le quali le più memorabili sono quelle per bambini. D’altronde nelle innumerevoli interviste che gli chiedevano di fare affermava che il suo impegno non era a favore di questa o quella linea politica, ma in difesa della dignità originaria di ogni cittadino del mondo.
Ammirava Che Guevara ed era contrario alla globalizzazione liberista del pianeta e alla distruzione della natura. Affermò profeticamente: “Ci troviamo davanti a un vero scontro frontale tra le grandi multinazionali e gli stati. Questi subiscono gravi interferenze nelle loro fondamentali decisioni politiche, economiche e militari da parte di organizzazioni mondiali che non dipendono da nessuno Stato, non rispondono delle loro attività a nessun governo e non sono sottoposte al controllo di nessun parlamento e di nessuna istituzione che rappresenti l’interesse collettivo. In poche parole, la struttura politica del mondo sta per essere sconvolta”.
Sono prese di posizione e affermazioni che, messe in bocca a qualsiasi intellettualino nostrano da salotto, apparirebbero solo come ridicole pose radical-chic. In Sepulveda suonano invece vere e drammatiche: lui era stato torturato e perseguitato da un regime, lui aveva vissuto coi poveri del Sudamerica, lui aveva toccato con mano, in giro per il mondo, il devastante impoverimento umano (spirituale e materiale) e politico portato dalla vittoria della finanza e del mercato sovranazionale rispetto alle storie e alle civiltà delle società di tutto il mondo, ricco e povero.
Di tutto questo aveva fatto, in un certo senso, la sua poetica. I suoi racconti attraversano il mondo e sono racconti di ribelli che, per il solo fatto di vivere liberi e poveri, mettono in scacco le anonime ricorrenze del potere. È il caso di Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, il primo romanzo, ambientato in un paesino al margine della foresta amazzonica, che lo rivelò come scrittore; ma anche del personaggio di Juan Belmonte, forse il vero alter-ego dello scrittore, che torna in una delle ultime opere di Sepúlveda, dal titolo significativo La fine della storia, che forse è la fine dell’epoca del capitalismo ruggente e sfinito; un personaggio che si muove tra la Russia di Trockij e il Cile di Pinochet, dalla Germania di Hitler alla Patagonia di oggi e che era già apparso in un altro romanzo di successo, Un nome da torero.
Anche raccontare una storia era un atto umano perché politico, per Sepúlveda. Ricorderà spesso un episodio, accadutogli durante la visita a un campo di concentramento nazista: “A un passo da dove si innalzavano gli infami forni crematori, nella ruvida superficie di una pietra, qualcuno, chi?, aveva inciso con l’aiuto di un coltello forse, o di un chiodo, la più drammatica delle proteste: ‘Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia’”.
Il pubblico italiano l’ha amato moltissimo. Si stima in otto milioni il numero dei suoi libri venduti nel nostro paese. L’opera che gli ha dato celebrità universale è Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, grazie anche al cartone animato realizzato da Enzo D’Alò che rimane il film d’animazione italiano che ha incassato di più nella storia della nostra cinematografia. La Gabbianella fa in realtà parte di una trilogia, assieme a Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà e Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza chiamata significativamente “Trilogia dell’amicizia”.
E forse sta proprio qui il segreto di queste storie, deliziose e intriganti: nel racconto della Gabbianella, in realtà, Sepúlveda evidenzia, attraverso la storia di un bislacco e colorito gruppo di gatti-amici, che è l’amicizia ad educare, ad insegnare alla Gabbianella il volo: “Volare mi fa paura – stridette Fortunata alzandosi. – Quando succederà, io sarò accanto a te – miagolò Zorba leccandole la testa”.
Sepulveda ebbe innumerevoli amici, anche in Italia (parlava assai bene la nostra lingua); affabulatore straordinario, il suo stile semplice e accogliente per il lettore risente anche della grande tradizione orale dei narratori popolari dell’America Latina, alcuni dei quali deve aver ascoltato personalmente e avere avuto come amici. Che sia questo il suo segreto? Il segreto affettuoso, che diventa norma poetica nei suoi libri, persino del suo impegno politico? “Un amico si prende sempre cura della libertà dell’altro” diceva questo amico dei lettori, che ha regalato storie di amicizia all’umanità.