Il “passaggio dalla fase pandemica del coronavirus a quella endemica” che sottintende un ritorno alla normalità e alla riapertura delle attività economiche e sociali è il grande tema che si sta ponendo in questi ultimi giorni di apparente frenata del coronavirus. La Federazione dell’Ordine dei medici insieme a molti virologi, epidemiologici e medici di medicina generale ha messo a punto una “proposta scientifica” per riaprire in sicurezza l’Italia in cui si ipotizza la “creazione di una struttura di Monitoraggio e di risposta flessibile” con centri di monitoraggio a diffusione capillare sul territorio. Per il professor Ivan Cavicchi, docente di Sociologia delle organizzazioni sanitarie e di Filosofia della medicina all’Università Tor Vergata di Roma, facoltà di Medicina, “prima di una proposta scientifica ce ne vuole una istituzionalizzata”.
Si parla, alla luce degli ultimi dati, di riapertura delle attività, ma restano molti dubbi. Il vicepresidente della Regione Lombardia ha detto che siamo tutt’altro che fuori dalla pandemia. Che ne pensa?
Anch’io penso che non ne siamo fuori, ma soprattutto ritengo che quello che dovremmo fare per permetterci delle riaperture ancora non è stato per nulla organizzato.
Cosa intende?
Si tratta di organizzare un controllo sul territorio, che mi pare sia ancora molto lontano. Riaprire senza nel contempo organizzare una sorveglianza, il termine che usano gli inglesi, sul territorio a livello di comunità è molto pericoloso.
Ci spieghi.
Nella comunità il virus non è debellato, non abbiamo vaccini, abbiamo cure che fortunatamente si stanno rivelando in alcuni casi di aiuto, ma il rischio che riprenda il contagio non è da sottovalutare.
La proposta scientifica lanciata dalla Federazione dei medici parla proprio di controllo territoriale. Che idea si è fatto?
La faccenda è complessa. L’idea generale della proposta è condivisibile, ma non può essere organizzata solo a livello scientifico, prima ancora va fatta a livello istituzionale. Chiama in causa poteri centrali e periferici, addirittura si ipotizza un’autonomia finanziaria, faccenda molto delicata. L’idea generale va bene, ma già creare una entità di sorveglianza nazionale per raccogliere dati organizzata in maniera centrifuga, è più complicato.
In che senso?
Perché per forza di cose ci si deve poi appoggiare sulle Regioni e sui Comuni. Quindi, la vedo come un’idea molto condivisibile, ma di difficile praticabilità.
Questa esigenza di un controllo sul territorio, su cui anche lei è d’accordo, segnala una mancanza nel sistema sanitario italiano o l’epidemia era impossibile da prevedere in questi termini?
L’epidemia ha dimostrato, in maniera inequivocabile, che il modello di prevenzione italiano è fallito. Non. ha funzionato. Questo è stato dimostrato dall’epidemia stessa. In Italia si ha un’idea di prevenzione piuttosto datata, legata a vecchie teorie igienistiche e lavoristiche. Soprattutto, da noi la prevenzione è realizzata in prestazioni, delimitata ad alcuni servizi, come i dipartimenti di prevenzione primaria, che il coronavirus ha spazzato via. Ha rivelato la sua inconsistenza. Ci vuole un’altra idea di prevenzione.
Quale?
Meno difensivistica e più costruttivistica. Costruire, cioè, le ragioni per le quali non dobbiamo correre pericoli. Oggi abbiamo solo un paradigma difensivo: la tutela, l’idea di difendere il cittadino dai “cattivi”.
Invece?
Il nuovo modello dovrebbe essere non difendere con metodi vecchi e superati, ma costruire le condizioni sul territorio e nell’organizzazione sociale per ridurre il rischio. È un altro approccio.
Secondo lei, c’è la possibilità che un nuovo modello come questo venga recepito?
Questa è una vera idea di riforma sanitaria e non vedo in giro un pensiero sulle riforme, ma solo sull’organizzazione: ad esempio, aumentare i posti letto nelle terapie intensive perché i posti letto erano pochi. Ma il modello di difesa delle nostre leggi sanitarie, lo stesso da 40 anni, di fronte al coronavirus non ha funzionato. Bisogna dirlo, bisogna inventarne un altro.
Vediamo che molti paesi europei stanno ottenendo risultati che in Italia sono molto lontani. Come mai?
Ci sono approcci molto diversi, alcuni funzionano di più, altri di meno. Il sistema che può reggere meglio un’epidemia è il nostro sistema: pubblico, universalistico e solidale. Ma questo sistema deve essere a regime e purtroppo non lo è. Prima del virus ha ereditato contraddizioni mai risolte, che il virus ha smascherato. Teniamo conto che gli ospedali italiani, a livello normativo e di standard, sono fermi agli anni Sessanta. Dieci anni dopo, la riforma sanitaria non li ha cambiati, ma solo assorbiti tali e quali. È vero che c’è stato un taglio dei posti letto, ma è altrettanto vero che il modello di ospedale non l’abbiamo mai toccato. È un sistema separato dal territorio, dicotomico, e dopo il virus questa mancata riforma degli ospedali grida vendetta.
Si discute di sistema sanitario privato e pubblico: sono in contrasto tra loro come sostengono alcuni?
Il nostro, in realtà, è un sistema pubblico misto, che permette di avere convenzioni con il privato. Il privato dove si paga tutto di tasca propria è minoritario, il privato italiano è convenzionato, è una estensione del sistema pubblico, però non è uguale.
In che modo non è uguale?
Il privato convenzionato tende a risparmiare sui costi: ad esempio, non ha i pronto soccorso come gli ospedali pubblici, non ha le terapie intensive perché sono reparti molto costosi. Se vogliamo mantenere un sistema pubblico esteso con una quota privata, essa va programmata esattamente come il pubblico, altrimenti non ha senso.
Che ne pensa dell’ipotesi di riapertura a fasi? Ad esempio, si può riaprire Milano?
Non esiste un sistema a fasi, dove si dia la precedenza a questo o a quello, a parte la scuola, che è un problema delicato perché la scuola è una comunità. Personalmente, prima di tutto, creerei le condizioni sul territorio per una tutela ad personam: devo prima sapere che il mio territorio ha il controllo della situazione, perché può riaprirsi un focolaio, può succedere che vengano fuori soggetti infetti e bisogna saper rispondere subito, non permettere che il focolaio si espanda. Ma per fare questo il territorio deve avere un’organizzazione subito, riutilizzando quello che ha a disposizione: i dipartimenti di prevenzione, le mappe di rischio che si usavano nei posti di lavoro, i gruppi omogenei. Prima di decidere cosa riaprire bisogna mettere in sicurezza il territorio, bisogna monitorarlo, testarlo, perché dobbiamo essere in grado di intervenire subito alla minima ripresa di un contagio.
(Paolo Vites)