Dopo quasi due mesi, il governatore dell’Emilia–Romagna, Stefano Bonaccini, ha rotto il silenzio stampa sull’epidemia coronavirus. O per meglio dire: ha deciso di affacciarsi sulla soglia del prezioso oscuramento mediatico garantitogli a ranghi compatti dalla grande stampa nazionale, impegnata invece da settimane a processare la gestione dell’emergenza nella vicina Lombardia. Un’uscita cautissima e laterale: su BusinessInsider Italia, una testata digitale satellite di Repubblica. Un’intervista in perfetto stile togliattiano.
Allo scontato quesito iniziale – “quale è la situazione?” – il presidente appena riconfermato dell’Emilia–Romagna accenna in termini vaghi a un “rallentamento del contagio”. Ma si guarda bene dal precisare che la sua regione resta saldamente al secondo posto nella graduatoria nazionale per contagi (a ieri sera 21.486) e soprattutto i decessi (2.843): nessuna cifra compare mai nell’intero testo.
Accetta, Bonaccini, una domanda che accosta l’Emilia–Romagna alla Lombardia, ma come spunto per un un risposta ambigua ai limiti del fake. “Noi non abbiamo avuto focolai”, salvo rammentare tre righe dopo che “è stato molto difficile scegliere di istituire di notte la zona rossa di Medicina alle porte di Bologna”. Però “oggi quell’operazione è diventata un modello”. E le aree tuttora rosso–sangue di Piacenza e Parma (anche ieri 15 decessi)?
L’analisi di Bonaccini è puro Sherlock Holmes: “Da Lodi e Codogno ci divide solo un ponte”. Elementare: tutta colpa della Lombardia. “Sinceramente non ho avuto il tempo di guardare in casa d’altri”, taglia corto il governatore dell’Emilia, con un misto di impazienza e di solidarietà “sovietica” al collega Fontana.
Poi: “Credo che sia dovere di tutti mettere da parte le polemiche per lavorare insieme e uscire il prima possibile dall’emergenza. Se ci sono state irregolarità, eventualmente spetterà alle autorità competenti verificarle” eccetera.
Insomma: il mantra bulgaro ripetuto quotidianamente dai media che da settimane attaccano la Lombardia e tacciono sulle responsabilità del governo Conte. Naturalmente, a tre mesi dalla riconferma il 26 gennaio, è tempo business as usual, di riapertura, di politica e affari, di un piano “autonomista” di ripresa da 5 miliardi: sul quale è già al lavoro, fra gli esperti, Romano Prodi in persona.
Su un tema un’intervista di questo tenore avrebbe potuto tranquillamente sorvolare: sul caso Rimini. Bonaccini invece ne accenna prima obliquamente – “Anche le restrizioni nel riminese sono state molto importanti e hanno dato risultati positivi” – poi per decantare “l’introduzione dell’intelligenza artificiale a supporto del personale dell’ospedale di Rimini”. Un modo ulteriormente ambiguo per non negare che Rimini sia stata molto, troppo citata in queste settimane. L’ultima volta – ne ha riferito su La Stampa Jacopo Iacoboni – in una fresca interrogazione parlamentare della deputata M5s Alessandra Ermellino: che torna a chiedere lumi sull’operato dei servizi di intelligence nel monitorare il contagio globale all’inizio dell’anno. E l’interrogazione torna a riferirsi alla presenza di una folta rappresentanza di operatori cinesi provenienti dalla regione di Wuhan al Sigep, una fiera del turismo svoltasi a Rimini fra il 16 e il 20 gennaio: pochi giorni prima che le autorità cinesi mettessero in quarantena Wuhan. Al Sigep erano presenti anche stand di Codogno e delle province di Bergamo e Brescia. Un fatto che lo Ieg (la holding che controlla Fiera di Rimini ed è quotata in Borsa) ha confermato ancora il 26 marzo: lamentando il diffondersi di notizie e supposizioni potenzialmente lesive per la società e per il Made in Italy turistico e riservandosi ogni tutela legale. Bonaccini non ha in effetti mai citato la Fiera di Rimini. Ma nel vicino Veneto – pure mai citato da Bonaccini che sta invece affannosamente inseguendo il “modello Zaia” – direbbero forse che le due allusioni di rappezzo sono state peggio dell’omissione diretta.
Con perfetta sincronia con Bonaccini sono invece uscite dal loro letargo da epidemia anche le Sardine. Forse con la prima richiesta puntuale della loro stagione: “Togliere alla Lombardia la delega alla sanità”. Par di capire: solo alla Lombardia. Invece – si può arguire – l’Emilia–Romagna (magari solo l’Emilia–Romagna) rimarrebbe in corsa per l’autonomia rafforzata: anche se gli elettori della Regione non hanno mai votato la richiesta con referendum popolari, come invece hanno fatto i lombardi e i veneti. Sbaglierebbe, in ogni caso, chi si attendesse che il ministro iper–centralista degli Affari Regionali, Francesco Boccia, si opponesse a prescindere. È nel M5s che – almeno a parole – “un italiano vale uno”. Nel Pd (nel governo a “tempo indeterminato” da quasi un decennio – salvo la parentesi gialloverde – senza mai aver vinto un’elezione politica) dipende da che partito quell’italiano vota. E poi in Italia il voto è uno dei tanti istituti virtualmente sospesi nella democrazia costituzionale. In Corea del Sud – dove la pandemia è ancora in corso – si è invece regolarmente votato mercoledì. Seul (230 morti per 10.600 contagi) è a un’ora di volo da Wuhan.
Che esista una correlazione fra standard di democrazia in un sistema–Paese e capacità di risposta a un’emergenza? Dalla Sud Corea l’Italia (22mila morti per 168mila contagi a 9 ore di volo dalla Cina) vuole ora mutuare il telemonitoraggio a tappeto sui cittadini. Che sia opportuno importare anche i protocolli per far funzionare in sicurezza una democrazia?