L’attuale epidemia che sta flagellando un quarto del pianeta ha sorpreso tutti per la velocità di propagazione, soprattutto a causa della presenza di contagiati asintomatici. Comportamenti innocenti come la partecipazione a un evento sportivo, la passeggiata all’aperto in una domenica di sole, ma soprattutto la normale attività manageriale di imprenditori e quadri d’azienda, colpevoli soltanto di essere transitati a Wuhan o in altre regioni contagiate dell’estesa Cina, si sono rivelati fatali.
Ma c’è anche un’altra evidenza degna di nota: i tempi oggettivamente lunghi della ricerca scientifica e la sua fisiologica difficoltà a coincidere con l’esigenza di immediatezza che le amministrazioni sono costrette a richiedere. La ricerca porta spesso a valutazioni non univoche e ci vuole tempo affinché si converga su una conclusione uniforme.
Da qui il dilemma fatale per gli amministratori e i responsabili del potere di comando che hanno dovuto affidarsi (in Italia come nel resto del mondo) alla pluralità delle metodiche e dei modelli di ricerca per capire cosa fosse ragionevole fare, salvo poi procedere a immediati ripensamenti; come hanno dimostrato i casi clamorosi del Regno Unito e della Svezia.
In questa sommatoria di comportamenti in buona fede si sta consumando il dramma dell’attuale pandemia.
Ma se è così, non c’è nulla di più stolto e sconsiderato che scatenarsi nella caccia all’untore, rintracciare interessi meschini, riunendo sospetti e illazioni, lanciando accuse e preparare la ghigliottina mediatica che dai primi anni Novanta non cessa di affliggere l’Italia e che, a ben vedere, costituisce già di suo una nostra epidemia morale permanente.
Così, per Roberto Saviano, la cui notorietà è pari alla gravità delle denunce che puntualmente solleva, la produttiva Lombardia ha scelto a tavolino di ignorare il virus per privilegiare la produzione. Infatti scrive che: “…mentre i media parlavano delle scelte drammatiche che erano rimesse ai medici delle terapie intensive, tra chi intubare e chi lasciar morire, altre scelte venivano fatte e il tema del contendere è stato: chiudere le produzioni, con il rischio di un collasso economico, o mantenere aperto tutto il possibile, sacrificando vite umane? …. Oggi sappiamo che, … per non confinare in casa operai che erano utili alla catena di montaggio e che … dovevano e devono decidere tra la vita e il lavoro, si è favorita una massiccia diffusione del contagio, che al di là della parzialità dei dati, restituisce una mortalità, in termini assoluti, spaventosa”.
Qui i comportamenti incolpevoli sono smascherati, i responsabili individuati e pubblicamente denunciati. Nessuna partita di calcio, nessuna passeggiata lungo i navigli, nessun viaggio di lavoro in Cina, nessun dilemma per chi è costretto a decidere in assenza di certezze, ma l’esatto contrario: il primato dell’interesse, il cinismo consapevole. Vengono allora evocati i fantasmi di imprenditori per i quali “produttività e conti correnti valgono più delle persone”, sostenuti da “una politica che decide solo seguendo l’odore del denaro” e quindi “genera morte e non ricchezza”.
Come fa Saviano a ritenere che, su di un morbo che virologi di vaglia hanno dichiarato, per settimane, essere poco più di una semplice influenza, i nostri imprenditori del bergamasco abbiano avuto una simile coscienza della letalità e, cinicamente, abbiano deciso la morte degli operai “utili alla catena di montaggio”? Come fa a scrivere simili enormità?
Sono analisi moralmente indecenti che avvelenano la ragione e ricreano il mantra del sospetto stabilmente imperante da trent’anni dentro i nostri confini. La ghigliottina morale è sempre pronta e il club degli indignati in servizio permanente effettivo è pronto a chiamare in causa i soliti noti: in primis Berlusconi (ovviamente), ma certamente Cl, che in Lombardia è “potentissima e detta legge”, con Roberto Formigoni chiamato in causa: uno dei migliori presidenti che la Lombardia abbia mai avuto, onorato da quattro mandati; ma si sa, gli elettori quando non votano a sinistra, o sono stupidi o sono corrotti, o entrambe le cose. La prova del potere di Cl risiede nel fatto che questo movimento ecclesiale, con i suoi “medici antiabortisti”, “crea difficoltà alle donne che vogliono farsi prescrivere la pillola antiabortiva”. Non so cosa c’entri la lotta dei cattolici contro l’aborto con il Covid-19, ma sulla carretta per la ghigliottina di Saviano, dopo Silvio Berlusconi, c’è sempre un posto a disposizione per gli eredi di don Giussani.
Le parole velenose e immorali di Saviano ci pongono tuttavia sul tavolo un problema ben più importante che va al di là del suo delirio: perché cediamo così volentieri alla tentazione di indicare i colpevoli anche quando non ci sono?
Perché Saviano non parla della scandalosa lentezza della nostra macchina decisionale, della nostra ingombrante e ineliminabile struttura burocratico-organizzativa? E’ orribile pensare che il personale medico e paramedico abbia dovuto attendere giorni (e in qualche caso anche settimane) per avere ciò che era necessario: un ritardo che più di cento tra medici e infermieri hanno pagato con la vita. Perché Saviano non denuncia la tragedia in diretta provocata da questi colpevoli ritardi? Perché non spende nemmeno una parola sullo scandaloso immobilismo e la cronica inefficienza dello Stato?
Il motivo è abbastanza semplice: perché è proprio la cultura del sospetto che, elevata a pensiero unico, produce incessantemente la crescita del pachiderma burocratico che, moltiplicando regole e controlli, ha per scopo proprio quello di bloccare sul nascere i reati potenziali, le manovre illegittime, le possibili corruzioni. Sarebbe lodevole se ciò avesse portato a debellare la corruzione, ma in realtà ha condotto solo alla paralisi del Paese. Se il vero male dell’Italia è la burocrazia, il club degli indignati del quale Saviano è socio onorario è il fornitore della materia prima della quale il pachiderma burocratico si nutre: quella cultura del sospetto che da trent’anni ci lega al palo, infangandoci peraltro sempre e comunque, soprattutto fuori dall’Italia, con colpevole irresponsabilità.
Sono le sollecitazioni del nostro “Tribunale di Salute Pubblica” che alimentano la diuturna ricerca di nuovi controlli e di nuovi vincoli, fino a fare dell’amministratore pubblico un mestiere ad alto rischio di inchiesta giudiziaria (la magistratura non dorme mai). E se qualcuno come a Genova, riunendo le migliori eccellenze, riesce a costruire uno dei più importanti ponti d’Italia con una tempistica degna della Baviera, c’è già qualche giornalista di Repubblica che prevede – purtroppo a ragione – una lunga serie di inchieste giudiziarie per gli improvvidi amministratori che, loro sì, hanno osato sfidare il sistema.