NEW YORK – New York City. Tutti ne parlano, tutte ne vedono le immagini, fotogrammi di desolazione e lutto, le fosse comuni di Hart Island, la carneficina delle case di riposo per anziani, i cadaveri in quei sacchi impilati sul retro delle Funeral Homes (le pompe funebri), gli accorati appelli ed aggiornamenti del Governatore Andrew Cuomo e del Sindaco Bill de Blasio.
New York City. Tutti ne conoscono i numeri, che per quanto approssimativi e sommari ci raccontano una storia drammatica: contagi sull’ordine dei 150mila, oltre 10mila morti, e soprattutto un trend che a parte rari momenti in cui sembra illuderci, avanza con la sua marcia spietata, inarrestable, togliendo il respiro anche a chi i polmoni li ha ancora integri.
È tutta l’America ad essere colpita, a faticare, a procedere con affanno. È tutta l’America a ritrovarsi col motore dell’economia imballato, con il freno a mano tirato quando fino ad un mese fa tutto viaggiava a vele spiegate. Ma qui, a New York City, dove il social distancing e la nostra vita quotidiana non avrebbero mai avuto mezza possibilità di convivere, tutto è esploso in maniera clamorosa, esagerata, come sempre e più di sempre, perché qui a New York City ci interessa solo ciò che è clamoroso ed esagerato.
Ma che aria tira veramente a New York City? A viverci oggi, che effetto fa? Cosa ne è di questa New York senza gente per le strade e senza grattacieli illuminati? Che cosa si sente, che cosa si vede, che cosa traspare dagli occhi che sbucano dietro alle mascherine di quei quattro gatti che si incrociano per le strade?
Tristezza. Se dovessi provare a raccogliere in una parola quel che non ha forma ma che da forma al sentimento di sé e quindi a tutto quel che ci circonda, “tristezza” sarebbe my word of choice, la parola che sceglierei.
Sì, c’è dolore, perché a questo punto ognuno in qualche modo è stato toccato, ognuno conosce qualcuno che se n’è andato o che sta lottando tra la vita e la morte in qualche ospedale, o rischia la vita come operatore sanitario; c’è paura perché nessuno sa quando e come il virus possa colpire, e colpisse me o qualcuno dei miei cari chissà come l’organismo potrebbe reagire.
E poi un profondo senso di incertezza rispetto al futuro accompagnato da una bruciante preoccupazione per il presente, perché senza lavoro e senza soldi come si fa a tirare avanti? Tutta l’America è squassata dalla disoccupazione, oltre 22 milioni di senza lavoro, un’epidemia che surclassa quella del coronavirus, un flagello arrivato anche là dove il coronavirus non ce l’ha fatta.
Questa New York City, pressoché deserta, che vibra solo attraverso quegli occhi che sbucano fuori dalle mascherine, mi sembra triste, blue. Non c’è da spaventarsi, non di questo. Sarà perché ho sempre amato il blues, the music of sadness, ma la tristezza mi è cara, le voglio bene. La tristezza è preziosa. Bisogna capirla però. Forse basterebbe scoprire o riscoprire e comprendere quella formidabile definizione che ne da San Tommaso: desiderio di un bene assente. Assente, non inesistente. Un bene che c’è, che deve esistere da qualche parte, ma che io non trovo. Un Bene con la B maiuscola, l’unica cosa che, consapevoli o non, cerchiamo tutta la vita.
Cos’altro ci fa diventare grandi, innamorare, studiare, cercar lavoro, costruire grattacieli? Un pungolo che è sempre lì, in tempo di pace come in tempo di guerra. Solo che in tempo di pace ci sono mille distrazioni a soccorrerci quando l’assenza di questo Bene si farebbe dolorosa. Adesso no. Adesso non c’è proprio niente, non c’è neanche il campionato di baseball! Chi ha mai passato tanto tempo con se stesso?
Quello che traspare non è solo nostalgia per quello che era e non è più, è altro. Gli occhi che sbucano da quelle mascherine non hanno nient’altro da raccontare che questa tristezza, questo desiderio per un Bene che non c’è. Oggi lo sappiamo tutti.
Questa tristezza è un dono prezioso. Prendiamola sul serio.
God Bless America!