Una domanda che mi ha sempre accompagnato nella vita è: da dove nascono le idee? se in natura nulla si crea e nulla si distrugge, come nasce nel pensiero umano qualcosa che adesso c’è, ma prima non c’era? nel fiorire di scuole di ‘scrittura creativa’ come può essere insegnato qualcosa il cui risultato, per definizione, è qualcosa di diverso da quanto conosciuto prima? Su questo tema, da qualche anno è stato pubblicato un saggio di Bill Bruford, di cui si spera vivamente venga pubblicata una edizione italiana, dalla University of Michigan Press: Uncharted. Creativity and the Expert Drummer.
Uncharted: letteralmente non sulle carte (geografiche).
Bill Bruford è stato uno dei batteristi inglesi più creativi tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni 2000. Di formazione e stile jazzistico, prestato al rock nei primi anni della sua carriera per poi ritornare a dedicarsi sempre più a progetti e collaborazioni in ambito jazz.
DALLA CRISI ALLE DOMANDE
Si ritira in pensione nel 2009 e scrive una bellissima ‘Autobiografia alla batteria’. Nell’anno successivo l’University of Surrey lo contatta per offrigli una laurea ad honorem, ma…”Sarei interessato ad esplorare qualcosa circa la creatività e la psicologia della performance musicale… e se mi guadagnassi realmente la laurea con una tesi?”, “Ah… vuole percorrere la strada difficile…” In quel momento nasce l’idea di approfondire come tesi di laurea tutte le domande che una crisi artistica provoca in lui.
Una carriera quarantennale, partita accogliendo a braccia aperte la performance musicale con l’entusiasmo della gioventù, finisce quattro decadi dopo nel terrore di suonare ancora, nella sicurezza di non sapere più niente del significato delle proprie azioni; lontano dalle iniziali dorate certezze dell’ignoranza, suonare in pubblico negli ultimi anni diventa incomprensibilmente difficile: da qui la decisione di fermarsi e capire cosa è successo. Perché all’inizio suonare era così facile e adesso così imbarazzante al punto di mettere fine alla carriera? che cosa è cambiato in me? Cosa è cambiato attorno a me?
L’origine del saggio nasce da un profondo interesse personale: il bisogno di sapere come la cultura psicologica dei batteristi determina e dà senso alla loro azione. L’indagine si svolge quindi nel confronto con un insieme di batteristi da cui suscitare una risposta per sé, più che ribadire una tesi precostituita. L’elenco degli intervistati è costituito cercando il più ampio spettro di possibilità di etnie, stili e contesti per catturare l’immagine più generale possibile del batterista contemporaneo. Gli intervistati sono: Cindy Blackman Santana (Carlos Santana, Lenny Kravitz, Herbie Hancock); Peter Erskine (Weather Report, Steely Dan, Helsinki Philharmonic Orchestra); Martin France (John Taylor, Kenny Wheeler, NDR Radio Orchestra); Mark Guiliana (David Bowie, Brad Mehldau, Avishai Coehen); Dylan Howe (Ian Dury, Wilco Johnson, Steve Howe); Ralph Salmins (Van Morrison, the Waterboys, Paul McCartney); Asaf Sirkis (Tim Garland, Larry Coryell, Gwilym Simcock); Thomas Strønen (Bugge Wesseltoft, Tomasz Stanko, Trondheim Jazz Orchestra); Chad Wackerman (Frank Zappa, James Taylor, Allan Holdsworth).
PARTENZA DAL PENSIERO RICEVUTO
Poiché non è possibile accedere direttamente all’esperienza creativa, ma solo alla sua rappresentazione verbale, condizionata dalla cultura, diventa necessario l’uso di uno schema teorico che limiti i fraintendimenti inevitabili. In mancanza di opere specifiche sull’esperienza musicale (uno dei pregi di questo saggio è quello di inserirsi in questa lacuna), lo schema viene estrapolato dagli studi sulla creatività nel campo della performance teatrale.
Nelle contemporanee teorie sulla creatività il fuoco non è più sull’immagine romantica del genio solitario a cui è stato elargito il dono divino del raptus creativo (che casomai potrebbe essere l’atto conclusivo di un processo di pensiero incominciato molto prima), ma il punto focale è spostato nella relazione tra il soggetto e l’ambiente (la cultura in cui è immerso, gli altri a cui fa riferimento) seguendo processi presenti in ognuno, così che, anche se non tutti arrivano a generare dei risultati creativi riconosciuti dai più, tutti esercitano una creatività nella risoluzione dei problemi della vita quotidiana.
Abbiamo quindi un modello ‘classico’ (Csikszentmihalyi) che vede la creatività come una variazione apportata ad un dominio di regole trasmesso dalla cultura all’individuo; variazione analizzata da un gruppo di intermediari e giudicata creativa nel momento in cui viene inclusa in una nuova versione del dominio. Se questo approccio (Grande-C) è troppo restrittivo (solo l’interessante caso di Max Roach, secondo l’autore, risponderebbe a questo criterio nella storia della batteria), l’approccio della creatività usata nei problemi della vita quotidiana (piccola-c), d’altra parte, rischia di svalutare il giudizio individuando come creativa ogni attività musicale. La strada per uscire dal dilemma viene tracciata da Glaveanu (Distributed Creativity) che, come accennato in precedenza, localizza il fenomeno non nell’individuo o negli oggetti, ma tra l’azione, l’attore, l’artefatto da una parte e il pubblico, che fruisce e riceve l’azione, dall’altra. Creatività, quindi, come forma di un’azione. Azione che produce artefatti considerati come nuovi, utili e significativi da un’audience.
Creativo è ciò che viene giudicato tale da una comunità di ascoltatori costituita da critici, colleghi musicisti, semplici ascoltatori che colgono la significatività della materia musicale proposta, costituendo così un setaccio che non lasci passare la miriade di azione creative (piccola-c), ma non significative; ma neppure perda tutta quella raccolta di atti creativi importanti che non passerebbero l’esame della variazione del dominio di regole (Grande-C).
L’accento si sposta dal più prevedibile aggettivo ‘nuovo’ all’aggettivo ‘significativo’, infatti se il nuovo drumming fosse veramente ‘nuovo’, cioè slegato dai riferimenti precedenti, semplicemente non sarebbe riconosciuto come drumming. In questo senso l’autore accoglie lo spostamento della domanda di John Hope Manson: non: “è nuovo?”, ma: “è rilevante?”. Non è nuovo l’oggetto in sé, ma il significato dell’azione che lo ha prodotto, che viene attribuito da chi lo riceve: does it matter?
A questo punto, l’indagine verte sull’esperienza (forse la parola più ricorrente nel saggio) secondo un percorso segnato da due assunti: l’esperienza è il risultato di una prolungata e accumulata interazione con l’ambiente, che è generata dall’azione del soggetto; la strada per conoscere la mente umana è attraverso i suoi prodotti e artefatti (Dewey, Boesch). Dal saggio di Dewey ”Arte come Esperienza’ vengono fatti propri tre punti come fondamenta dell’analisi di Bruford: 1- l’interazione dell’individuo con l’ambiente è segnata da un agire (doing) e un ricevere un’azione esterna (undergoing), secondo il modello sviluppato in seguito da Glaveanu (Creativity as Action), “l’azione parte con un impulso ed è diretta verso un compimento” (…) “ricevere precede sempre l’azione e nello stesso tempo è continuata da essa” (…) “e diventa ‘esperienza compiuta’”; 2- creatività come espressione di un’esperienza, “letteralmente ‘ex-pressed’ dall’esperienza”, l’oggetto visto come il succo pressato fuori dalla spremitura dell’esperienza; 3 – il lavoro artistico non è completo fino a quando non è comunicato, non vive in qualche esperienza individuale: l’opera d’arte è ciò che se ne fa chi la riceve.
IL CONTINUUM FUNZIONALE/COMPOSIZIONALE: FAR FUNZIONARE LA MUSICA
A questo punto partendo dall’esperienza musicale degli intervistati si nota che la pratica oscilla tra due poli: funzionale (in cui viene chiesto al musicista di scomparire per riprodurre esattamente le parti musicali già definite) e composizionale (in cui ci si aspetta che il musicista inventi la musica che sta suonando). Normalmente al musicista viene chiesto il controllo di dove posizionarsi nel continuo funzionale/composizionale in cui si inserisce e proprio in questa esperienza quotidiana ci si chiede se c’è qualcosa di creativo nella pratica del musicista. Partendo dal polo funzionale la reazione più ricorrente indica la soddisfazione, nel pur frustrante sacrificio di dover trascurare idee affioranti nel processo, dell’agire affinché la propria azione sia tesa a far funzionare la musica e possibilmente a contribuire a renderla significativa. Tensione che rimarrà come premessa di una buona attività composizionale, nonostante goda apparentemente di maggiore libertà rispetto a vincoli predefiniti. È il musicista che serve la musica, non la musica che serve il musicista: atteggiamento tutt’altro che scontato.
SDCA: LE QUATTRO CATEGORIE: Selection, Differentation, Communication, Assessment
Di fronte al problema di far funzionare la musica ‘la più grande sfida è decidere cosa suonare e cosa non suonare’ (Ralph Salmins), per proseguire con la scelta di come suonarlo. Viene quindi gettata la premessa delle categorie secondo cui Bruford indaga l’emergere della creatività: la tensione ad agire affinché la musica con cui viene costruito il rapporto con gli altri musicisti funzioni. La SELEZIONE del materiale sonoro da usare è presa come primo elemento dello schema di quattro categorie proposto dall’autore: un insieme di scelte che saranno influenzate da fattori stilistici, estetici, capacità tecniche, il contesto della performance ecc. Dopodiché il secondo fattore preso in considerazione è la DIFFERENZIAZIONE. Per parlare di creatività ci deve essere una differenza qualitativa rispetto a quanto precedentemente conosciuto: [la musica] ‘suona come nessun altro avrebbe fatto e penso di esserne orgoglioso’ (Chad Wackerman). Cercare di andare oltre i risultati conosciuti, evitare quello che hanno già fatto altri o sviluppare la propria voce individuale, seguendo varie strategie come l’imporsi dei vincoli operativi come ‘fare di meno’, limitare il numero di prove per ottenere più concentrazione, avere dei problemi da risolvere o curare le circostanze che possono favorire l’emergere della creatività evitando di interromperne il Flusso (Csikszentmihalyi) quando è in corso. Ciò che conta nella Differenziazione del significato non è da dove il materiale scelto (Selezione) proviene, ma dove viene posto e a chi, nel processo, viene comunicato: l’origine di un’idea è meno importante della sua trasformazione. In questo modello incontriamo la terza dimensione dopo la Selezione e la Differenziazione, cioè la COMUNICAZIONE a qualcuno che giudicherà l’azione come creativa (quarta categoria: ASSESSMENT, Valutazione). La comunicazione, il desiderio di raggiungere gli altri (spesso intesi come i musicisti con cui si suona) è riconosciuta come una spinta importante nella propria azione: ‘voglio essere parte di un team che può cambiare la direzione musicale; voglio che il mio suonare influenzi gli altri suonatori’ (Thomas Strønen), ‘ Penso che io risponda di più se qualcuno mi ispira, piuttosto che se devo ispirarmi da me. Immagino sia come essere un giocatore di una squadra, non è vero?’ (Martin France), ‘La collaborazione permette che accadano cose più grandi’ (Peter Erskine).
L’INFLUENZA DELL’IDEOLOGIA
Nel momento in cui viene indirizzata una comunicazione ad un destinatario entra in gioco però il ruolo della cultura attraverso la quale viene interpretato il gesto, cultura che definisce le aspettative e determina il modo in cui viene attribuito significato all’azione intrapresa. Nel caso dei batteristi l’autore ritiene che questi siano collocati come una razza a parte ed inferiore, in particolare individua la problematica culturale nell’impatto della divisione cartesiana mente/corpo e il grado in cui l’intelletto è sottovalutato nella pratica musicale.
La considerazione che la cultura africana sia ritenuta rivolta al corpo, mentre quella europea rivolta al pensiero, si proietta sulla considerazione dei batteristi in quanto provenienti da generi black come il jazz: vengono dunque pensati come legati ad un’immagine di primitività e istintività che esclude legami con la riflessione e la ragione, nonostante “potrei argomentare che il ritmo musicale è una questione tanto mentale, quanto fisica. Decidere ‘quando’ suonare una nota è molto più una questione di pensiero che decidere quale nota suonare”. L’ideologia della divisione mente/corpo esacerba la separazione tra pensiero e feeling e la concomitante sottovalutazione dell’intelletto in ‘coloro che lavorano col ritmo’ e porta quindi alla loro marginalizzazione. La cultura impone quindi un ruolo ai batteristi e getta un’aspettativa sul significato dell’azione del loro suonare. Per esempio: il batterista deve tenere il tempo, ma con l’evoluzione della tecnologia questo ruolo può essere svolto dalle macchine: e allora a cosa serve un batterista? Il ruolo attribuito viene meno causandone di conseguenza la crisi. La cultura a seconda del momento storico, ha determinato una sequenza di ruoli: all’inizio il batterista era visto come un giocoliere negli spettacoli di vaudeville (qualcuno da guardare); poi come il batterista di una band di swing (qualcuno che fa ballare); un coautore di alta arte afroamericana (qualcuno da ascoltare); un dio del rock (qualcuno con cui raggiungere l’oblio); e, forse per completare il cerchio, come un ri-creatore (qualcuno da guardare sul palco mentre compie il groove già preparato da onnipresenti e invadenti computer) .
Questo punto di vista esterno che minimizza il pensiero nel ruolo dei batteristi, è bilanciato da un alto senso di incoraggiamento e dalla condivisione degli stessi scopi e problematiche all’interno della comunità dei batteristi.
RAGGIUNGERE L’ALTRO
Con la consapevolezza del ruolo della cultura nel dare forma alla comunicazione Bruford affronta quindi l’ASSESSMENT, il giudizio sul fatto che la performance sia creativa o no (chi conta? chi lo stabilisce? Dagli intervistati emerge principalmente la stima del giudizio dei propri colleghi in quanto più facilmente consapevoli del significato del frutto del lavoro proposto); questo giudizio è proprio ciò che porta alla necessità della comunicazione: “Una delle ragioni per cui devi sperimentarlo là [sul palco], è che là è dove sono gli altri (musicisti o pubblico); l’esperienza è in parte portata nella realtà attraverso la condivisione con gli altri. Per Mark [Guiliana] è il substrato sul quale cresce la musica. Il mio giudizio sintetico per cui il locus della sua esperienza creativa è sul palco (piuttosto che in studio) incontra una vivace e ripetuta affermazione: ‘totalmente, totalmente’ “.
Infatti una delle ragioni individuate dall’autore come un fattore di imbarazzo all’emergere della creatività nella propria esperienza e di una sorta di omologazione nella musica degli ultimi decenni, è da ricercare nel passaggio dalla pratica del “tutti-insieme-in-una-stanza”, alla pratica solitaria dello “stay-home-drummer”: la frammentazione della produzione della musica in parti isolate sovrapposte assieme successivamente dal produttore. In questo modo viene escluso quell’incontro e comunicazione tra musicisti e generazioni di musicisti che dà senso alla loro azione e la connette in riferimento al contesto storico precedente.
Il giudizio sulla creatività nella performance, inoltre, nasce proprio all’interno dell’influenza della cultura in cui si è immersi, e dalle interviste emerge come nella comunità non viene perseguita la creatività in sé; piuttosto questa viene vista come un mezzo per far funzionare una collaborazione con gli altri. L’obiettivo principale è far funzionare la musica, trovare la colla che la tiene insieme, ulteriormente il tentativo è quello di inventare ciò che la renda significativa.
L’ESPERIENZA CHE SCOMPARE
Infine l’indagine si rivolge al giudizio sulla propria esperienza degli intervistati: in cosa consiste e come si svolge la performance creativa che hanno sperimentato? che significato attribuiscono alla loro esperienza? Questione delicata in quanto, anche se la performance può essere ripetuta o registrata e riprodotta, l’atto creativo non può essere catturato e riprodotto ed è per questo che Mark Guiliana lo definisce efficacemente come “l’esperienza che scompare”. Lo specifico atto creativo avviene una volta sola nella circostanza dell’incontro, del rapporto, del musicista con gli altri musicisti e con il pubblico in quel momento lì. Un rapporto che accade in quella circostanza specifica e a cui poter accostarsi di conseguenza solo nel partecipare a quella performance e non tramite registrazioni che trattengono solo il risultato sonoro di questa esperienza, ma non l’esperienza in sé.
In conclusione la tesi proposta nel saggio ‘enfatizza la relazione’ (tra individuo e tecnologia, cultura e comunità; azione, esperienza e significato; lo spostamento del fuoco dal batterista o dall’ambiente socioculturale alla relazione tra i due): in primo luogo, i batteristi raggiungono la creatività nella performance musicale dalla effettiva comunicazione di differenze significative, in secondo luogo la creatività è sperimentata e giudicata attraverso azioni significative nel contesto in cui si svolgono.
CREATIVITA’: QUALITA’ DELLA RELAZIONE
Bill Bruford sottolinea la tesi che “la creatività non è una cosa, è la relazione che connette due o più persone in una comune (e creativa) ricerca di significato, di comprensione.” (…) “ultimamente, la creatività musicale è una qualità della relazione” : ”Quando tu ed io ci guardiamo negli occhi, contiamo fino a quattro e colpiamo un tamburo o suoniamo note insieme, ci coinvolgiamo in una occupazione elementare millenaria che ci connette e ci fa sentire bene a vari livelli. Una spiegazione per questo è che il risultato combinato appare più grande della somma delle parti. (…) Ci piace, lo facciamo ancora, e possiamo provare a farlo in qualche modo migliore o diversamente. Troviamo significato in questo processo, e il processo stesso è la ricompensa”.
In un rapporto da dove nasce la creatività? Dal desiderio di ‘farlo funzionare’ (make it work) e ‘renderlo significativo’ (make it matter).
In ultima analisi lo studio di Bill Bruford risponde alla domanda iniziale: da dove vengono e come vengono le idee? Le idee vengono dalla cura del rapporto.
Dedicato agli amici del pensiero