RIFORMA PENSIONI, COSA CAMBIA COL CORONAVIRUS?
I dati sulle nuove pensioni liquidate dall‘Inps (limitatamente ai settori privati) nel primo trimestre del 2020 (si veda il Monitoraggio dell’Osservatorio sui flussi di pensionamento riferito ai trattamenti erogati nel 2019 e, appunto, nei primi tre mesi del 2020) meritano una particolare attenzione perché costituiscono “l’ultima spiaggia” prima del contagio (è noto infatti che le domande vanno presentate decorsi tre mesi dalla maturazione del diritto) per quanto riguarda le due via d’uscita sperimentali introdotte dal dl n.4/2019 e cioè: quota 100 fino a tutto il 2021 e il blocco fino al 2026 dell’anzianità ordinaria (a prescindere dall’età anagrafica) a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e a un anno in meno per le donne.
Nelle previsioni si riteneva in esaurimento o quanto meno in regresso la “spinta propulsiva” ad avvalersi delle suddette deroghe, considerando la decrescita progressiva (si veda la tabella) delle domande presentate, col trascorrere dei mesi, nel 2019.
Da Il Sole 24 Ore del 16 settembre 2019
Dall’analisi degli indicatori statistici, secondo il Coordinamento attuariale dell’Istituto, si osserva che il peso delle pensioni anticipate su quelle di vecchiaia (che aveva riscontrato un importante incremento nel 2019 rispetto all’anno precedente sia per l’aumento dell’età legale, sia per l’introduzione di quota 100 e delle altre misure) ritorna nel primo trimestre dell’anno in corso a livelli più bassi arrivando quasi a una parità tra pensioni di anzianità e pensioni di vecchiaia liquidate. Quest’analisi sembra più rivolta a stornare l’attenzione su delle misure controverse, volute da una maggioranza in parte differente da quella giallo-verde (la storia la conosciamo tutti) che a rappresentare un dato di fatto.
È vero, del resto, che nel complesso delle gestioni del lavoro dipendente, autonomo e parasubordinato il numero dei trattamenti di vecchiaia e di anzianità, nel primo trimestre, è praticamente lo stesso (intorno alle 55mila unità). Ma non è così per quanto riguarda il lavoro dipendente (Fpld) dove le pensioni di anzianità risultano essere il doppio (34mila contro 16mila) di quelle di vecchiaia (certo, nel 2019 erano circa 2,5 volte, 18mila contro 7mila). Confrontando le statistiche del primo trimestre 2020 con le corrispondenti dell’anno precedente, limitatamente ai trattamenti di anzianità, l’incremento nell’anno in corso è sostanziale.
È bene ricordare, però, che le norme di cui al decreto n. 4 del 2019 entrarono in vigore da aprile di quello stesso anno. Presumibilmente, i flussi cambieranno in seguito allo tsunami che si è scatenato sulla produzione e sul lavoro a opera del Covid-19, nel senso che quasi tutti coloro in condizione di far valere i requisiti previsti non perderanno l’occasione di assicurarsi un reddito – per giunta abbastanza dignitoso – attraversando la soglia della quiescenza. Ecco perché chi scrive suggerisce di usare cautela nel modificare le norme sperimentali, magari proseguendo nella trattativa, tra Governo e sindacati, per un superamento strutturale della riforma Fornero: un negoziato condotto allo scopo di portare indietro le lancette della storia del sistema pensionistico a prima del 2011.
Ovviamente queste sono raccomandazioni teoriche, perché – con l’aria che tira – non vi è la possibilità di caricare di nuovi oneri i regimi previdenziali. In un’altra occasione ho parlato di eterogenesi dei fini che si verifica quando le azioni umane realizzano obiettivi diversi da quelli posti dai protagonisti. Quota 100 (e dintorni) avevano il compito di realizzare un turnover virtuoso tra anziani facilitati ad andare in pensione e giovani chiamati a sostituirli nelle aziende. Sappiamo tutti che questo obiettivo non è stato raggiunto se non in modo assolutamente parziale. Ma, come dice un proverbio popolare, dove corre un nobile destriero può cimentarsi, senza particolari pretese, anche un asinello. Così, se ci sarà qualche pensione in più, conteremo un numero inferiore di licenziati per riduzione di personale.
Come consueto il conto lo pagheranno le future generazioni, le quali tuttavia saranno chiamate a caricarsi di oneri ben più pesanti, se solo pensiamo alla mole di debito che stiamo facendo e che faremo.