Nell’estate di guerra del 1915, a Berlino, l’allora studente Walter Benjamin incontra per la prima volta il giovane sionista Gershom Scholem, d’origine ebraica come lui, col quale fa amicizia, inaugurando un sodalizio spirituale destinato a durare per tutta la non lunga vita di Benjamin, che, dopo la fine del primo conflitto mondiale, si laurea in filosofia a Berna, per poi dedicarsi appieno alla scrittura.
Gli anni successivi, dal 1920 al ’30, costituiranno per lui un periodo d’intensa produzione e frequentazione intellettuale; egli infatti conoscerà il fior fiore dell’intellighenzia tedesca ‒ tra cui Bloch, Rosenzweig, Adorno, Fromm, Brecht, Horkheimer ‒ e scriverà una serie di testi notevoli, tra i quali spiccano il saggio sulle Affinità elettive di Goethe e Il dramma barocco tedesco, un’opera estremamente attuale sull’arte e la modernità, con la quale l’autore tenta infruttuosamente di abilitarsi all’Università di Francoforte. È invece di qualche anno più tardi il libro più noto di Benjamin: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, teso non solo a decifrare la crisi dell’arte coeva, ma a comprendere come una desacralizzazione del prodotto artistico riproducibile-fruibile grazie alla tecnologia, finisca per favorire un’esperienza laica della cultura sostituendone la ritualità tramite un’esposizione dalla forte valenza anti-estetizzante.
Senz’altro innumerevoli sono altresì gli scritti realizzati prima dello scoppio della seconda guerra mondiale da parte di quest’uomo singolarissimo, che fu insieme filosofo, critico letterario, traduttore, cultore del misticismo ebraico e infine flâneur: instancabile passeggiatore-osservatore per le vie di Parigi nonché creatore d’una vasta opera incompiuta ‒ il Passagen-Werk ‒: tentativo di una rivisitazione-ricostruzione globale del secolo XIX, colto tramite lo specchio della capitale francese.
E proprio da Parigi ‒ la città in cui Benjamin s’era rifugiato, abbandonata per sempre Berlino ‒ egli dovrà fuggire dopo l’occupazione tedesca del giugno 1940, dirigendosi a sud per poi raggiungere la Spagna e imbarcarsi quindi per gli Stati Uniti. Ma varcato il confine, a Port Bou all’ebreo errante viene ritirato il visto di transito e a causa di ciò, colto dall’angoscia di venir rispedito in Francia e catturato dai nazisti, Benjamin si suicida assumendo una massiccia dose di morfina.
A illuminare aspetti meno noti di questo personaggio oggi considerato pensatore-autore tra i basilari del Novecento è un libro, recentemente edito da Adelphi ‒ W. Benjamin e G. Scholem, Archivio e Camera Oscura, Carteggio 1932-1940 ‒, che contiene le lettere dei due amici; molte delle quali relative agli ultimi anni di vita del Nostro: all’insegna com’è della precarietà, della scrittura e della “clausura”. Scholem, il teologo-kabbalista, s’è da tempo rifugiato in Palestina; e Benjamin, l’esule in esilio, da Parigi (ma anche da varie altre località frequentate dall’inquieto profugo) gli scrive spesso, inviandogli tra l’altro i propri testi affinché li conservi in un archivio parallelo al suo. Simile a Brod, l’amico di Kafka che custodisce e salva i suoi libri dalla distruzione a cui il grande praghese li vorrebbe destinati, Scholem raccoglie dunque non soltanto le opere di Benjamin, ma anche il suo epistolario; sempre sperando vanamente che il corrispondente berlinese possa trasferirsi pure lui in Palestina.
Va peraltro sottolineato come a Scholem non si debba solo l’edizione del carteggio suddetto, ma anche la stesura di ben due libri sul grande flâneur, ovvero: Walter Benjamin e il suo angelo, nonché Walter Benjamin. Storia di un’amicizia (entrambi pubblicati da Adelphi). Ma Archivio e Camera oscura è cosa diversa e rappresenta davvero ‒ come ha scritto su Repubblica Pietro Citati ‒ “un documento impareggiabile sulla vita europea tra le due guerre”, oltre a essere la testimonianza di confidenze e reticenze, di scambi affettuosi, ma anche di una sorta di pudicizia tra i due, come emerge ad esempio dall’ultima lettera a Scholem, in cui un insolito abbraccio virtuale rivolto all’amico viene temperato dall’aggiunta dell’avverbio latino spiritualiter. O come quando, in una lettera da Marina di Massa, Benjamin accenna ‒ dopo aver confessato questa volta senza alcun pudore che “Per il momento me la cavo con gli spiccioli per le sigarette che Speyer mi ha anticipato e, per il resto, vivo a credito” ‒ alla sua ammirazione per il paesaggio delle Alpi Apuane e ai suoi ricordi di San Gimignano, Volterra, Siena e Lucca.
Analogamente, in una lettera da Parigi del ’37, egli nota in tono mesto: “Non ho potuto recuperare il mio vecchio alloggio e mi sto arrangiando da due mesi con una sistemazione miserabile che mi è stata messa a disposizione gratuitamente. Si trova al piano terra accanto a una delle principali arterie fuori Parigi ed è invasa dalla mattina alla sera dal rumore di innumerevoli camion. La mia capacità di lavorare ha sofferto gravemente di queste condizioni”.
Ed è giusto il tratto umano, troppo umano di questo epistolario ‒ per dirla con Nietzsche, ora amato ora biasimato dall’autore del Passagen-Werk ‒ ad essere l’elemento di maggiore interesse. Non per nulla Scholem avvertì l’esigenza di aggiungere un epilogo al Carteggio (intitolato “Sulla fine della corrispondenza”), nel quale l’archivista cita se stesso riportando due commoventi brani, tratti dal proprio libro Walter Benjamin. Storia di un’amicizia.
Credo sia opportuno concludere riportandone almeno una parte: “Della sua morte, avvenuta tra il 26 e il 27 settembre, fui informato l’8 novembre da una breve lettera, inviatami il 21 ottobre 1940 da Hannah Arendt, che allora si trovava ancora nel Sud della Francia. Recandosi, alcuni mesi dopo, a Port Bou, la Arendt cercò inutilmente la tomba. ‘Non era possibile trovarla, in nessun posto c’era scritto il suo nome. (…) Il cimitero si affaccia sulla piccola baia, dirimpetto al Mediterraneo; è scolpito a terrazze nella roccia, e in queste pareti di pietra vengono introdotte le bare. È sicuramente uno dei posti più fantastici e belli che abbia mai visto in vita mia’”.
Questa citazione può apparirci appena il tentativo d’alleviare la memoria del lutto. Resta al contempo, però, la testimonianza umanissima del desiderio tenace di rimembrarlo-conservarlo.