Alcuni avvocati americani hanno avviato un’azione legale per citare in giudizio la Cina, chiedendo migliaia di miliardi di dollari di risarcimento per i danni economici causati dalla pandemia di coronavirus. Sotto accusa i leader comunisti cinesi, perché la loro negligenza ha permesso lo scoppio dell’epidemia, che poi hanno cercato di coprire. La class action, che coinvolge migliaia di richiedenti in 40 paesi tra cui la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, è stata presentata in Florida il mese scorso. “Che la Cina sia responsabile della pandemia è ormai acclarato da centinaia di documenti giunti in Occidente, pubblicati dall’Associated Press e anche dal nostro centro studi, il Cesnur. Ma attenzione: è responsabile non tanto dal punto vista sanitario, ma da quello politico” afferma Massimo Introvigne, studioso delle religioni, filosofo e sociologo. In Cina si calcolano in migliaia i medici, gli scienziati e i comuni cittadini imprigionati per aver diffuso su internet notizie che hanno infastidito il regime.
Emergono prove sempre più evidenti che il governo di Pechino abbia cercato di insabbiare l’insorgere del coronavirus, negandone l’esistenza e lasciando così che si diffondesse nel mondo. Lei che idea si è fatto?
Sull’argomento abbiamo pubblicato decine di articoli e centinaia di documenti. La Cina è responsabile anche da un punto di vista legale, per quanto sarà difficile ottenere risarcimenti. È quasi impossibile costringere uno Stato sovrano a far ciò. Penso sia più facile ottenerli dal Partito comunista cinese, anche se resta comunque un’operazione dal punto di vista legale molto difficile.
Al di là di possibili sanzioni, la responsabilità di Pechino di aver scatenato una pandemia mondiale è un dato assodato?
Sì, nonostante una enorme manovra propagandistica per negare la realtà. Ci sono state fughe di documenti, pubblicati da Associated Press e anche da noi, che dimostrano come il primo caso di infezione risale a fine novembre. La notizia arriva da Wuhan a Pechino in dicembre e le istruzioni che emergono dal presidente Xi Jinping sono di mettere tutto a tacere, incarcerando i dottori che ne parlano su internet.
Il passo successivo?
Questa situazione dura fino al 13 febbraio 2020, quando proprio quel giorno la Cina riceve una protesta dalla Thailandia, perché alcuni viaggiatori provenienti da Wuhan portano il virus in quel paese. Per alcuni giorni il regime continua a negare che esista il problema, poi la Cina è costretta a nominare due commissioni di studio. Dopo qualche giorno Pechino ammette che si tratta di un virus molto grave.
C’è un passaggio chiave in questo propagarsi del virus in Cina e all’estero?
Sì. Quando la notizia è ancora tenuta segreta, a Wuhan si tiene un banchetto cui partecipano 40mila famiglie con l’obiettivo di entrare nel Guinness dei primati. Da Wuhan tre milioni di persone si sparpagliano per tutta la Cina e all’estero in occasione del Capodanno cinese. Se in Italia ancora non sappiamo chi sia il paziente zero, in Corea del Sud lo scoprono: è un cittadino proveniente da Wuhan.
A quel punto scoppia la pandemia?
Il ritardo nell’ammettere il problema non è legato a ragioni sanitarie, ma politiche. La responsabilità politica del ritardo con cui la Cina ha informato dell’epidemia prima i cinesi e poi il mondo intero configura la tipologia di responsabilità prevista per questi casi dal diritto internazionale. L’origine del virus ancora non la sappiamo, ma poco importa a questo punto. La cosa certa è il tentativo di insabbiare tutto fino a quando il virus non è arrivato all’estero: una responsabilità politica che nessuno può negare.
La Cina è un regime dittatoriale, abituato a nascondere la verità. Siamo davanti a qualcosa di inedito per le dimensioni del fenomeno?
C’è una manovra precisa di Pechino, che vuole mettere le mani sul mondo intero e riesce a difendersi da ogni accusa.
Ci spieghi come.
Nel 2018 Xi Jinping ha rispolverato un’organizzazione che da tempo era decaduta, il Fronte Unito. Un’alleanza fra Partito comunista, piccoli partiti che esistono solo sulla carta e sindacati trasformata in un apparato di propaganda. Questa organizzazione ha risorse finanziarie illimitate, ha arruolato amici in tutto il mondo in molti ambienti, dagli accademici ai giornalisti e ai politici. Questa rete fa sì che, ogniqualvolta si critica la Cina, ci siano sempre accademici, anche in campo medico, e giornali anche autorevoli pronti a difendere la Cina, anche con articoli che dicono “non è il momento di fare polemiche o fare accuse, bisogna lavorare uniti”.
Ci può citare qualche esempio?
Una parte importante di questo apparato è stata dispiegata all’Onu, dove vale il principio che un voto vale uno. Cioè Andorra conta come gli Stati Uniti. Pechino si è legata a paesi nei suoi confronti debitori, soprattutto in Africa, che tiene per il collo e che votano come e con la Cina. Ha stretto alleanze con regimi che vanno dalla Russia al Venezuela e alla Siria, che votano con la Cina e viceversa. Si è assicurata un leader etiope come presidente dell’Oms che è suo amico. Non sempre riesce a piazzare un amico a capo di una commissione, come alla Commissione marchi e brevetti, visto che sono i più grandi violatori di marchi e brevetti. E quando si parla di deferire la Cina alla Corte di giustizia, bisogna ricordare che la vice presidente è una cinese. Grazie a questo blocco di paesi sono riusciti ad avere posizioni apicali: è cinese addirittura il presidente di una commissione che sceglie i commissari che indagano sui diritti umani.
Pechino ha messo le mani dappertutto, in modo da governare la politica mondiale?
Sì, l’unico problema è che hanno avuto troppo successo. Questo ha allertato diversi leader come la Merkel, Macron, Johnson e Trump, che hanno detto: basta propaganda, faremo i conti quando sarà finita l’emergenza. Ma in questo quadro c’è un ventre molle ed è l’Italia.
L’Italia?
In Italia la Cina ha dispiegato una decisa azione di propaganda, trovando sponde politiche tra i 5 Stelle, ma anche nella Lega, ad esempio in Michele Geraci, ex vice ministro dell’Economia, che ha vissuto diversi anni in Cina. Sappiamo che altri politici, ad esempio Renzi, vanno spesso in Cina. Non solo ci sono giornalisti, come in tutto il mondo, ma anche accademici sempre pronti a difenderla. In Australia, dove si è indagato a fondo, si sono scoperti molti scienziati che erano a libro paga di Pechino. In Italia c’è stata una penetrazione nel mondo politico senza eguali tra i grandi paesi occidentali.
Come mai in Italia succede questo?
C’è un problema strategico e politico. Tutto l’arco politico, con poche eccezioni, è convinto che l’Italia otterrebbe dei vantaggi riposizionandosi come alleato di Cina e Russia. Salvini propende per Mosca, il M5s per Pechino. Ma non rimanere nel campo occidentale è un errore drammatico, anche se ne ricavassimo vantaggi economici. Uscire dal novero delle democrazie occidentali e guardare a modelli che democratici non sono è un errore storico.
Con l’emergere di questa pandemia, la Cina ha fatto autogol o guadagnerà ulteriore vantaggio economico?
Credo che sia troppo presto per dirlo, ma la possibilità dell’autogol credo che ci sia, perché si è diffusa tra i leader la consapevolezza sul tentativo di Pechino di cannibalizzare l’economia e la politica estera. Dipende, però, tutto dall’evoluzione delle diverse economie. Il New York Times ha scritto che, se l’economia cinese si riprende prima delle nostre, avrà un vantaggio strategico notevole. Se conserverà la leadership nel campo farmaceutico, dovremo tutti comprare dalla Cina. E alle sue condizioni.
(Paolo Vites)
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