Non esiste nulla che aiuti a fare selezione come la delusione. Assomiglia al temporale che, nell’aria, pulisce tutto. Poi, fatta la conta dei danni, casomai si ripartirà. Quell’albergo lo conoscono in tanti, è memoria che riaffiora ai bordi di ogni delusione: «A chi di noi l’albergo di Emmaus non è familiare? – scrisse Francois Mauriac – Chi non ha camminato su quella strada, una sera che tutto pareva perduto? Il Cristo era morto in noi» (Vita di Gesù). La nascita di Cristo è stata la Parola fatta carne, la sua morte è stata la delusione fatta carne, l’inizio della Via Crucis dei due amici incamminati verso Emmaus: «Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute». I verbi, coniugati all’imperfetto, sono la fotocopia della delusione: aspettative frantumate, attese defunte, speranza sepolta.
“Quanto stupidi siamo stati a credergli, amico mio” bisbigliò Cleopa al suo compagno. “Però sono tre giorni, alla fine, Cleopa: aveva detto che sarebbero stati tre. Abbi pazienza, aspettiamo il quarto per arrenderci. Dai!” Ad alta voce non lo disse: i microfoni degli evangelisti l’avrebbero spifferato. Eppoi a dirle ad alta voce, le cose belle non accadono mai. Per questo, invitò Cleopa all’ascolto: “Non girarti, fai finta di niente: ma c’è qualcuno che ci segue”. La cosa grottesca era che loro ci avevano creduto per davvero: non si lascia tutto per andar dietro al primo che passa. Il fatto serio è che quell’Uomo Nazareno li aveva ammaliati, incatenati con il suo cuore brioso. Ne aveva entusiasmato le possibilità, aveva riacceso vecchie memorie, mostrato loro che il possibile era illimitato. Li aveva addestrati, quando era in vita, alle imprese estreme. Poi, un giorno, franò loro il mondo addosso: appeso, crocifisso, morto, defunto. Tutto normale, comunque: «Le grandi aspettative sono il preludio delle grandi occasioni» (C. Thornton). Lo avesse saputo subito, Cleopa magari gli avrebbe detto: “Scusa, ti dispiacerebbe deludermi subito, così mi sento libero d’impegnarmi altrove?”. Invece, allora, era tutto così bello d’apparire vero. L’aveva seguito, inseguito, si era affidato al volo.
Poi, il tracollo fu così grande che si rimisero in strada, per allontanarsi il più possibile da quella delusione: “Non parliamone più, lasciamo che il tempo faccia la sua parte” disse Cleopa all’amico. Che, però, in cuor suo ricordava il segreto del buon-senso: contare fino a tre prima di mollare. Era la sera del terzo giorno – «Sono passati tre giorni» -, non era ancora scoccato il quarto: perché, dunque, arrendersi sul limite? E la speranza è un limite: sperare è rischiare di rimanere delusi, ma il massimo rischio nella vita è quello di chi non rischia mai per paura d’essere deluso. “Non so dirti il perché, Cleopa: ma io sento un qualcosa che mi dice che non tutto è perduto. Fidati, c’è un rumore familiare in questo silenzio: a Emmaus arriveremo, lì finirà il terzo giorno. Eppoi ti ricordi la finale allo stadio di Gerusalemme? Pareva finita la partita quando, all’ultimo, un contropiede ribaltò il risultato”. In contropiede, non contromano, «Gesù in persona camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo». Anche Lui deluso della loro delusione, come quella volta ch’era assetato della sete della donna di Samaria?
“Fermati, dai! Adesso non deluderci pure tu come quell’Altro: «Si fa sera, il giorno già volge al declino». Stai qui!”. Si ferma, li aveva raggiunti apposta per sentirsi dire così: era sopraggiunto all’ultimo, li aveva raggiunti sull’orlo. Com’è degli amori più grandi: ti portano quasi sul ciglio dello sfinimento per poi incatenarti in eterno «Prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò, lo diede loro» (cfr Lc 24,13-35). Puntualità fatta pane: sul finire del terzo giorno tornò. Come promesso.
Non varrebbe la pena prendercela quando qualcuno ci delude: forse era il massimo che poteva offrirci. Prima di definirla delusione, però, occorre contare fino a tre (giorni). E’ proprio all’ultimo che i grandi amori fanno la differenza: quando i piccoli hanno già fatto calare le tapparelle perché sfiniti dall’aspettare.