Gli anglosassoni, meglio la cultura anglosassone, ha una grandissima dote, o piuttosto ha una dote che l’ha resa grande nel mondo, e cioè un realismo che in qualche caso non isolato sfiora il cinismo. Così non ha stupito leggere nei giorni scorsi, nella press relaese europea il titolo dell’Economist che sintetizzava la domanda che in molti cenacoli, più o meno virtuali, anche tra noi ci si poneva: «Quanti punti di Pil vale una vita umana?».
Quante sere, ascoltando gli sproloqui di tanti più o meno esperti ce lo siamo chiesti anche noi: quale sarà il punto di caduta, il momento in cui si raggiungerà l’equilibrio tra un numero di morti “socialmente accettabile” e la ripresa delle attività lavorative? Eh già: se si lavora per campare, cosa fare quando bisogna scegliere tra lavorare e campare?
Non che la domanda sia nuova e nemmeno inattesa: in fondo qui al Nord, non abbiamo sempre guardato con una certa sufficienza a quanto avveniva un anno fa, anzi meno, a Taranto? Non avevamo tutti noi una risposta facile e chiara? Eh già, ma riguardava gli altri. Ora che ci tocca, anzi che ci contagia personalmente, ora che il virus circola qui, e non giù, qui sulle rive del Lario o nella bergamasca e non sul Golfo tarantino, ora la domanda per tanti tra noi assume un senso diverso.
Per quanto però sia la stessa domanda che agita il mondo e che non nasce oggi: c’è anzi una lunga esperienza sindacale e di contrattazione su questi temi. Solo che fino a ieri salute e sicurezza, diciamolo, era per moltissimi, un settore un po’ così, un po’ marginale. Sì, bisognava stare attenti alla 626 e alle sue successive evoluzioni, ma era una tra le tante rotture burocratiche. L’importante era “ul laurà” nella convinzione che senza “laurà” non si poteva “campà”.
Ora che anche i più piccoli, anche “i più piccolissimi”, hanno capito che lavorare e campare devono stare insieme, non sorprende che sia stato raggiunto un “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” e che su questo testo, solo apparentemente semplice, le parti sociali, organizzazioni datoriali e sindacali abbiano raggiunto una sintesi in tempi brevissimi.
Siccome la realtà è il solo punto di paragone certo e il resto sono opinioni, già solo questo primo dato è una risposta all’Economist. Non risposta morale, ma risposta che sta nella concretezza. La crisi ha evoluto la coscienza di tanti soggetti protagonisti: la salute non è una variabile indipendente, un dato di un algoritmo. Ma è il fondamento senza il quale il lavoro, ul laurà come si dice al Nord, non esiste. Perché i morti non lavorano. Almeno fino a prova contraria.
Così ancor prima di entrare nei contenuti del Protocollo, emerge che in quelle 14 pagine c’è uno sguardo al domani: sulla salute non si transige e non si fa da soli, ma si contratta. Già perché in queste settimane tra le non molte aziende che hanno saputo rispondere alla crisi vi sono state quelle che, per abitudine, per obbligo, per storia, per scelta ideale, avevano la consuetudine alla contrattazione, al dialogo sui problemi.
Quando si parla di ripresa misurata, di ripartenza a tappe, allora ogni dettaglio conta e se ci si conosce, se si ha l’abitudine a costruire insieme un ambiente di lavoro accogliente e salubre, beh allora la strada è segnata. Certo il protocollo è anche il prosieguo e il miglioramento di quello del 14 marzo, ma, appunto, molte tra le sue novità sono state dettate proprio dall’esperienza di questi 40 giorni.
Sui contenuti è presto detto: sono confermati in tutte le realtà lavorative gli obblighi di sanificazione, di pulizie, dei dispositivi individuali, dello smart working dove possibile, e l’attivazione degli ammortizzatori sociali quando una azienda deve prevedere tali interventi. A proposito di ammortizzatori sociali, nel Protocollo si insiste perché il Governo riconfermi questi strumenti per altre 9 settimane, oltre a quelle già in essere ovviamente, e perché sia ampliata la platea dei lavoratori che hanno diritto agli ammortizzatori.
Non mancano, come detto neppure le novità, a partire dalla questione dei tamponi cui devono essere sottoposti coloro che tornano al lavoro dopo essersi ammalati. Per i test sierologici, invece, sarà il medico competente a dire se servono o meno, non il politico o il sindacalista. Ci sarà un’autorità sanitaria che proporrà di fare i test nei luoghi di lavoro.
Ma intese di questo tipo sono anche momenti politicamente importanti, segnano un passaggio di epoca.
«Di solito – dice Angelo Colombini, Segretario nazionale Cisl – i Protocolli si concludevano soprattutto con le grandi imprese, o almeno con quelle realtà produttive ove la rappresentanza sindacale è radicata. Ora invece potremo concluderli anche per interi territori: d’altra parte oltre il 90% delle imprese ha meno di 5 dipendenti». La collaborazione tra impresa e sindacato sul punto ha fatto passi avanti, si direbbe: «Le rappresentanze Sindacali – dice Colombini – assumono un ruolo più forte, marcato; e se le imprese non asseconderanno questo percorso di sanificazione, è previsto che possano essere costrette alla chiusura». Il segno politico, infine, «è dato dunque dalla importanza dei corpi intermedi: di fronte a una urgenza come questa – conclude Colombini – i corpi intermedi hanno parlato e agito a salvaguardia dei lavoratori, delle imprese».
In sostanza: trovare la quadra tra lavoro e salute è stato possibile. Con buona pace dell’Economist.