L’accordo non c’è ancora, ma la direzione di marcia dopo il Consiglio europeo di giovedì è tracciata. Con alcuni punti fermi. La conferma delle misure già sostanzialmente concordate nei giorni scorsi per la mobilitazione di 540.000 miliardi tramite la Bei, il Mes e il nuovo fondo Sure. E la decisione di delegare alla Commissione la definizione di una proposta per istituire un fondo con valenza pluriennale, il Recovery Fund, finalizzato a raccogliere e destinare risorse per il rilancio dei Paesi aderenti, per la fase post-coronavirus.
Su quest’ultimo aspetto, il fondo che dovrebbe mobilitare almeno 1.000 miliardi di raccolta di risparmio per la ricostruzione, il comunicato del Presidente rende noto che dovrebbe essere messo in capo al bilancio dell’Ue, e alla gestione della Commissione, per le finalità convenute. E garantito da quote di contributi aggiuntivi degli Stati aderenti, per la raccolta di risparmio tramite l’emissione di bond di lunga scadenza e per finanziare programmi di nuovi investimenti dei Paesi aderenti.
I dissensi ancora aperti riguardano la durata delle emissioni di titoli, le modalità di erogazione delle risorse, a prestito o a fondo perduto, e per l’attribuzione degli oneri relativi agli interessi annuali. In poche parole, se metterli a carico del bilancio dell’Ue, finanziato dai contributi aggiuntivi degli Stati aderenti sulla base delle quote di partecipazione attuali, ovvero agli Stati utilizzatori sulla base dei finanziamenti ricevuti. Un aspetto non marginale, che differenzia gli interessi degli Stati mediterranei particolarmente indebitati e maggiormente danneggiati dall’emergenza sanitaria, da quelli dei Paesi del centro-nord Europa.
Ma attenzione ai giochi di parole. Messa in carico al bilancio europeo, fondo perduto e assenza di condizionalità legate ai debiti precedenti, non significano affatto che siano privi di oneri aggiuntivi per gli Stati aderenti. Comunque sia il costo dei contributi e degli interessi, sulla base dei criteri di distribuzione che saranno condivisi, rimarranno in capo agli Stati contribuenti e/o utilizzatori. E perciò destinati ad aumentare il loro debito pubblico.
La stessa gestione affidata alla Commissione aumenterà il peso delle Istituzioni dell’Ue, le famose condizionalità, nella gestione delle risorse. Ed è giusto che sia così. Qualunque sia il compromesso finale sul Recovery Fund, e completata la batteria degli strumenti e delle risorse a disposizione dell’Ue, Mes compreso, l’ Italia avrà di fronte un percorso senza alternative.
Il Governo italiano, e per correttezza anche le forze politiche dell’opposizione che si sono schierate in favore dell’intesa europea rimediando le contraddizioni aperte nella maggioranza, hanno avuto il merito di spostare, unitamente alle 9 nazioni firmatarie della lettera all’Ue, gli equilibri e le soluzioni che si stanno adottando. L’Ue ne uscirà rafforzata e il valore degli accordi sarà meglio compreso nei prossimi mesi che si annunciano drammatici. Si completa la batteria degli strumenti delle risorse a disposizione degli Stati per fronteggiare la recessione: gli interventi massicci della Bce per fornire liquidità al sistema e per acquistare i titoli di debito degli stati, il Sure per finanziare i sostegni al reddito del lavoratori, le linee della Bei per gli investimenti per le infrastrutture e verso le imprese, una linea del Mes dedicata agli interventi nel settore sanitario e non condizionata dai precedenti vincoli relativi al rientro dei debiti pubblici. E a partire dal 2021 anche le cospicue risorse del nuovo fondo Recovery. Tutto questo in aggiunta alla sospensione dei vincoli sul deficit e sul debito pubblico, alla mancata restituzione delle risorse europee non spese e alla possibilità di utilizzarle senza i vincoli del cofinanziamento per tutti gli anticipi che saranno fatti per il 2020.
Ma attenzione tutto questo comporterà uno spaventoso aumento del debito pubblico italiano che non sarà privo di gravi conseguenze. Vediamo quali:
– la sostenibilità del debito può essere raggiunta solo con elevati tassi di crescita annuali. Cosa possibile solo con il raddoppio dei nostri tassi di investimento e con un’occupazione che si deve crescere verso il tasso medio dell’Ue (almeno 2,5 milioni di occupati aggiuntivi). Cosa assai difficile per un Paese con un elevato invecchiamento della popolazione;
– un obiettivo di questo genere impone una capacità di visione e di programmazione delle risorse. La consapevolezza dei nostri punti di forza e di debolezza. L’individuazione dei fabbisogni di mobilitazione di risorse e di mezzi. Impegni scadenzati e verificabili nel tempo. Non certo l’accozzaglia di provvedimenti che stiamo approntando con modalità precarie ed esiti incerti;
– per entrare in questa logica bisogna ripensare la macchina dello Stato. È principalmente questa, con la burocrazia e una fiscalità che penalizza i risparmiatori, le imprese e le famiglie, che sono i veri motori dello sviluppo, che limita lo scorrere del sangue nelle vene del nostro Paese. E che va cambiata;
– bisogna frenare la deriva assistenziale e i flussi di risorse destinate a persone che non sono attive e che dovrebbero contribuire con il loro impegno alla crescita del Paese. Mettere fine al parassitismo, alla idea malsana che debbano essere altri, gli immigrati, a fare le cose sgradite agli italiani, che esistano diritti sociali precostituiti e accessibili a prescindere del rispetto del dovere di contribuire verso la comunità.
– infine, ma non per ultimo, smetterla di pensare che i nostri guai siano fonte delle cattiverie altrui, in particolare degli altri Stati dell’Unione europea. Senza gli interventi europei tutti i ragionamenti fatti in precedenza diventerebbero privi di senso e di sostanza. Altro che far da soli. Sarebbero i risparmiatori italiani i primi a darsi alla fuga.
I cambiamenti citati valgono un’agenda politica di lungo periodo. Richiedono un cambio radicale di mentalità e di classi dirigenti. La fine di un ciclo politico che ci ha portato nella direzione opposta. Come si suol dire… Il Re è nudo. E dobbiamo trarne le conseguenze.