Mentre la riforma del comunismo sovietico in senso democratico perseguita da Gorbaciov si dimostrava vana, la Cina popolare imboccava con Deng Xiaoping la strada dell’autoritarismo di mercato facendo del nazionalismo l’elemento di coesione dello Stato. La sopravvivenza dello Stato comunista fu possibile promuovendo l’integrazione economica internazionale della Cina sulla base di uno sviluppo capitalistico selvaggio e di un dominio assoluto del partito comunista: censura implacabile, furto di know-how e saccheggio di tecnologie occidentali. Da fabbrica del mondo di prodotti a basso costo a grande esportatore, a competitore degli Usa nei settori innovativi, alla crescita impressionante e senza limiti delle spese militari.
Nonostante la crescita del Pil, la Cina nega libertà elementari ad un numero immenso di esseri umani, nega libertà politiche, impone limitazioni intollerabili alla partecipazione alla vita pubblica. La Cina ha navigato tra le regole stabilite dal sistema multilaterale nell’indifferenza dei grandi paesi dell’Occidente verso le condizioni di illibertà e di sfruttamento dei lavoratori su cui si ergeva il sistema economico cinese; indifferenza verso il “trionfalismo nazionalista” che si è fatta ancora più marcata con l’avvento di Xi Jinping.
C’è chi sostiene, guardando alla Cina, che in fondo diritti e libertà intralciano lo sviluppo e farne a meno permette di crescere più speditamente. Può darsi che i metodi di un regime autoritario funzionino in alcuni frangenti, ma non credo che alla lunga garantiscano il benessere e la qualità della esistenza umana. È la libertà il motore di uno sviluppo duraturo e responsabile. Il progresso economico va inserito in un contesto generale di libertà politiche e civili.
Non solo. Come ha insegnato Amartya Sen, c’è un rapporto tra la libertà e la prevenzione delle catastrofi. Lo abbiamo visto concretamente in questi mesi. II ritardo e le reticenze di Pechino nel lanciare l’allarme hanno trasformato il coronavirus in una pandemia. Una condotta che ha svelato i caratteri del regime cinese. Se ci fosse stata la libertà di opinione, di critica del potere, di informazione, non sarebbe stato possibile nascondere i dati del morbo né tanto meno imporre il silenzio al medico che aveva inteso la gravità del virus. C’è da chiedersi se la Cina sia una potenza responsabile.
Infine: i cinesi sono insensibili alla democrazia? L’autoritarismo è implicito nel confucianesimo? Non è così. Sostenerlo non rende giustizia alla ricchezza degli insegnamenti confuciani. Del resto i giovani cinesi che si battono ad Hong Kong per lo stato di diritto dovrebbero insegnarci qualcosa. Qualcosa ci insegnarono – ma poi lo dimenticammo – i giovani di piazza Tiananmen del 1989. La verità è che il rispetto verso un grande paese come la Cina e verso il popolo cinese non deve significare indulgenza verso un regime dispotico e nazionalista.