La svolta a Gedi – in particolare a Repubblica – propaga le sue onde d’urto al di là della comunità degli addetti ai lavori politico-giornalistici. Dopo le “comunicazioni al mercato” riguardo l’ingresso formale di Exor come azionista di controllo e la nomina di tre nuovi direttori di testata, tre prese di posizione sono andate già a comporre un caso di studio istruttivo sulla tormentata stagione di passaggio che interessa anche la democrazia mediatica italiana.
La lettera inviata a tutti i dipendenti del gruppo dal nuovo Ceo Maurizio Scannavino e dal nuovo direttore editoriale Maurizio Molinari è lineare, stringata ai limiti di un realismo brutale per gli standard professionali e finanziari della media industry italiana. “Indipendenza significa capacità di essere noi stessi per nostra scelta e non per concessione di altri. Un gruppo editoriale è sano e in ultima istanza libero se è in grado di mantenersi. In parallelo alla rigorosa gestione dei conti per contrastare l’inesorabile calo dei fatturati tradizionali da diffusione e pubblicità, va giocata fino in fondo la partita sul terreno dei contenuti digitali”. Gedi vuole costruire “una nuova organizzazione che dovrà seguire i ritmi dettati dal bisogno di chi legge, guarda e ascolta”.
L'”ordine dei servizio n.1″ – idealmente firmato anche dal nuovo proprietario-presidente, l’ingegner John Elkann, Agnelli di quinta generazione – è una pillola concentrata di economia aziendale. Nel business model consolidato di Gedi (quotata in Borsa) l’informazione è un bene offerto sul mercato da un’impresa orientata al profitto. L’informazione è un bene complesso e delicato, ma – è implicito nella visione della Nuova Gedi – in una democrazia come quella italiana non manca una domanda plurale di giornalismo di qualità, di notizie fake-proof e di analisi a reale valore aggiunto. L’importante – per un’azienda editoriale di mercato – è intercettare quella domanda con contenuti mirati a prezzi/costi competitivi. Gli aiuti pubblici (“l’indipendenza concessa da altri”) possono essere compatibili con altri business model, ma non sono un’opzione per Gedi a guida Exor.
Nelle stesse ore l’ingegner Carlo De Benedetti – editore di Repubblica per tre quarti dei 44 anni d vita del quotidiano – ha rilasciato un’intervista al Foglio. De Benedetti è stato l’artefice, quattro anni fa, della fusione fra Espresso-Repubblica e Itedi (Exor) che ha portato sotto il controllo della sua holding Cir anche La Stampa e Il Secolo XIX. Poco dopo, tuttavia, ha polemicamente lasciato ai figli la proprietà della Cir, non nascondendo un malessere crescente per la gestione del business editoriale: in difficoltà sul fronte dei conti e apparentemente meno pesante nella vita politico-economica del Paese, paradossalmente nel corso di una legislatura dominata al centrosinistra. Durante un’ultima fase convulsa l’Ingegnere si è reso infine protagonista di un controverso tentativo di riacquisto “esterno” di Gedi: respinto, tuttavia, dai figli Rodolfo e Marco De Benedetti.
Fin da allora sul mercato si rincorrono le voci di un ritorno di De Benedetti Sr sulla scena editoriale con una nuova iniziativa. È l’ipotesi che lui stesso si premura di rilanciare sul Foglio, anche se in termini non definiti. Se la Nuova Gedi “sposterà a destra” Repubblica, premette l’Ingegnere, sembra aprirsi uno spazio politico-editoriale per un nuovo giornale, che “non costerebbe neppure molto”. L’invito sembra anzitutto rivolto alle firme di Repubblica – molte sull’orlo del pensionamento o anche oltre – che potrebbero essere subito tagliate dalla Nuova Gedi, a maggior ragione se la linea editoriale dovesse mutare. Mancano tuttavia, nell’uscita di De Benedetti, dettagli sul business model di una testata che alcuni già individuano nell’Unità, attualmente dormiente dopo una crisi apparentemente definitiva. Lo stesso Ingegnere ha accennato a suo tempo a una “fondazione” come contenitore di un’iniziativa di “giornalismo indipendente” not-for-profit: che parrebbe modellata su quella di La Voce cui diede breve vita Indro Montanelli dopo la rottura con Il Giornale.
Ma a una possibile nuova avventura si unirebbe il Fondatore di Repubblica? Il quasi 96enne Eugenio Scalfari, nel suo attesissimo editoriale di ieri, è stato attento a non portare la sua evidente contrarietà alla svolta maturata fino al limite di una drammatica rottura con la sua creatura giornalistica. Ha rivendicato in modo forte il suo ruolo di Fondatore: rimasto scolpito nella testata anche molti anni dopo che Scalfari ha liquidato la sua partecipazione in Espresso-Repubblica. Ed è in questo che Scalfari è sembrato contrapporsi in modo frontale all'”ordine di servizio” del nuovo vertice di Gedi. Il Fondatore è parso attribuirsi a vita un ruolo autonomo di giudizio ultimo sull’operato dei suoi successori: contrapponendo la peculiarità di una presunta “governance giornalistica” rispetto ai diritti e poteri che il capitalismo di mercato riserva in maniera esclusiva a proprietà e governance, anche in un’impresa editoriale.
Scalfari – in gioventù uno dei primi veri giornalisti economici italiani – è però troppo esperto per invischiarsi nel mantra del giornalismo “servizio pubblico”. Insiste invece sulla matrice “liberalsocialista” di Repubblica: un “fiore” politico-editoriale che “non appassisce”. Che però non basti una storica icona (che poi è la tradizionale “rosa nel pugno” dei radicali italiani) lo sa bene anche il Fondatore, che infatti annota: “Il liberalsocialismo è perfettamente in linea con le esigenze del mondo moderno, sempre che questo corrisponda al desiderio di un vasto pubblico che trae dal liberalsocialismo la realizzazione dei suoi valori, desideri, bisogni ideali”. È qui che il Fondatore mostra di comprendere la sfida lanciatagli dall’Ingegner Elkann, senza quindi escludere di trovarsi in futuro a “trarre personalmente e collegialmente – se possibile le conseguenze”: magari accettando la sfida ventilata dall’Ingegner De Benedetti. E il nocciolo della questione va probabilmente ricercato nella fusione (politico-ideologica nel ventesimo secolo) fra “liberalismo” e “socialismo”: ancora scontata per Scalfari; certamente non più per Elkann, che – in un ventunesimo secolo inoltrato – si muove in una liberaldemocrazia di mercato compiuta e autonoma.
P.S.: Una parte importante del “sermone” domenicale di Scalfari è dedicata a una dichiarazione di apprezzamento convinto al Premier Giuseppe Conte. Secondo il Fondatore di Repubblica, la gestione interna ed esterna dell’emergenza coronavirus procede grazie a “un governo in piena attività, sostenuto da una maggioranza notevole”. Scalfari vede Conte “abbastanza vicino al Pd e comunque alle esigenze liberal-socialiste. E non sono soltanto valide per la politica interna ma anche per quella europea e anzi, nel caso di Conte, liberalsocialista”. Sono affermazioni che hanno fatto alzare qualche sopracciglio: l’europeismo laico che certamente ha avuto nella Repubblica scalfariana la sua casa giornalistica, è stato finora incarnato da figure come Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, Romano Prodi o Giuliano Amato. Come mai Scalfari “benedica” oggi un Premier controverso anzitutto perché mai eletto, designato due volte a palazzo Chigi da Beppe Grillo, Davide Casaleggio e Luigi Di Maio, sedicente “sintonico con M5S ma di formazione cattolica” è qualcosa che forse scopriremo: il Fondatore si è infatti scaramanticamente augurato di poter innaffiare “il fiore di Repubblica” fino al compimento dei cent’anni (un auspicio cui, naturalmente, è impossibile non associarsi).