“Nel tempo della globalizzazione integrale si diceva, perfino con compiacimento: è sufficiente il batter d’ali di una farfalla in Asia per causare un uragano in America. Questa volta è stato il batter d’ali di un pipistrello in Cina che ha causato un uragano nel mondo” dice Giulio Tremonti, presidente di Aspen Institute Italia ed autore di tanti libri, fin dall’inizio non ortodossi sulla globalizzazione. “E quel batter d’ali ha dimostrato la fragilità del cosiddetto sistema globale come si è sviluppato in questi ultimi trent’anni”. Tremonti non ne trae però conclusioni affrettate.
Sulle cause non c’è chiarezza.
Non abbiamo idea sull’origine del virus: può essere stata in un laboratorio scientifico, od in una cucina, può essere stato in una fialetta di vetro, o in un piatto di cibo; o in un laboratorio sociale qual è la Cina, dove si confrontano e scontrano due civiltà, una iper-moderna ed una millenaria. Comunque quello che è venuto fuori dalla Cina è un virus globale che ha percorso la Via della Seta e ha causato un dissesto globale.
Partiamo da qui. Un dissesto quanto profondo?
È presto adesso per definire cause ed effetti, per distinguere tra fenomeni ed epifenomeni, o per dirla nei termini della peste di Manzoni, tra “accidenti” e “sostanza”. In ogni caso è evidente che la cascata dei fenomeni non si ferma alla pandemia, ma incide e profondamente sulla struttura dell’economia e così sulla politica, sulla filosofia e la prassi della globalizzazione.
In che modo, a suo avviso?
Si è avviata una fase di globalizzazione non più integrale come prima o, se si vuole, di de-globalizzazione. Non sappiamo come sarà da qui in avanti, ma è certo che questo è un momentum assolutamente “critico”, nel senso greco del termine. Questo è lo scenario generale.
Questa cascata di fenomeni è partita dalla Cina, è passata dall’Europa, è arrivata in America. L’Ue ha accusato un colpo durissimo ed è apparsa incapace di prendere contromisure efficaci.
Nella fase iniziale della pandemia, l’Europa, come Unione, è mancata. L’articolo 168 del Trattato sull’Unione Europea ne prevede la competenza in materia di sanità e di flagelli. È vero, è una competenza concorrente e non esclusiva, ma è ugualmente molto importante perché significa coordinamento, informazione rispetto ai sistemi statali sottostanti. Questa è totalmente mancata. È mancata all’inizio e manca ancora adesso.
E a livello di risposta economica? Mes, Sure, Bei, Recovery Fund sono la strada giusta?
Si è tornati a parlare di eurobond e questo è un fatto certamente positivo.
Eppure gli Stati europei sono riusciti ad alimentare la confusione anche su di essi. Ci aiuta a chiarire come stanno le cose?
L’idea degli eurobond è contenuta per la prima volta nel piano Delors del 1994 e qui è configurata come raccolta di capitali per investimenti strutturali diretti: la Commissione emette titoli europei (eurobond), raccoglie capitali sul mercato finanziario e li investe, così si diceva allora, sulle infrastrutture. Erano i corridoi europei.
Non se ne fece nulla. Fu lei a riproporli, nel 2003, durante il semestre di presidenza italiana.
Li riproposi con l’aggiunta di investimenti sulla difesa comune. La reazione tedesca fu negativa a priori, mentre quella inglese fu molto interessante. “Eurobond per la difesa? Nice, ma non ci va bene perché è nation building”. Appunto. Chi era pro o contro l’Europa? Io che li proponevo, o la Commissione Prodi che alla fine disse no?
Sembra una parentesi chiusa, almeno fino all’articolo sull’FT a firma Tremonti-Juncker del dicembre 2010. Poi è venuta la crisi greca. E adesso riappaiono.
Non hanno il nome iniziale, ma il solo fatto che non li si voglia chiamare eurobond vuol dire che sono importanti. Tornano come conseguenza di una crisi pandemica ed economica, e tuttavia ci sono. Bene.
Sono compatibili con i Trattati europei?
Sì. Certo dipende da come vengono strutturati. Del resto è difficile che Delors fosse sospettabile di eterodossia. Nel 2003 non furono bocciati per ragioni tecniche, ma per ragioni politiche.
E quindi hanno un futuro?
Possono averlo. Se c’è una parola che collega l’Europa al futuro è quella degli eurobond. Sul piano dei simboli, che si parli di eurobond è positivo. Se però passiamo dai simboli e ai numeri e guardiamo dentro la proposta dell’ultimo Consiglio europeo, ci si rende conto che la realtà è molto diversa.
Si lavora ad un pacchetto trilionario che potrebbe arrivare a 1.500 miliardi. Una cifra imponente. Basteranno?
Ragioniamo. Primo punto: quei soldi arriveranno nei prossimi mesi, non subito. Secondo: quegli importi vanno messi nel bilancio 2021-2027, dunque vanno proiettati almeno su sette anni. Poi vanno divisi per i 27 paesi dell’Ue. Terzo elemento: di quanto dev’essere addizionato il contributo dei paesi membri al bilancio comune? Altro esercizio: quanto è debito e quanto è fondo perduto?
La risposta?
L’impressione è che la parte largamente dominante sia debito, e che la parte di fondo perduto sia marginale.
Però l’idea iniziale Delors-Tremonti di eurobond è proprio quella di fondo perduto: debito europeo per investimenti europei.
Lo so. Infatti la quota per i bond è la parte minore del “piano trilionario”. Il pacchetto generale riguarda una famiglia di quattro strumenti: Mes, Sure, Bei e bond. I primi sono già più o meno definiti e hanno cifre relativamente piccole. Sono prestiti e non fondo perduto. Il Recovery Fund è tutto da definire, ma comunque è probabile che sia anch’esso più debito che fondo perduto. Se è debito, non sono i bond dell’idea originaria.
Con quali conseguenze?
Lo schema è quello della doppia intermediazione: debito europeo verso il mercato finanziario e debito nazionale verso l’Europa. Non investimenti diretti sui territori ma doppio debito.
Possiamo vedere più da vicino Sure, Bei e Mes?
Il cosiddetto Sure, la Cig europea, mette a disposizione 100 mld a livello europeo. Non sappiamo quanti ne potrebbero spettare all’Italia, ma sempre di prestito si tratta. Un conto è ricevere in regalo una casa, un conto è essere aiutati ad ottenere un mutuo a condizioni di favore. Per l’Italia, si può ipotizzare un differenziale in termini di interesse di 100 milioni. Ma sempre di mutuo parliamo.
La Banca europea di investimenti e il Meccanismo europeo di stabilità?
La Bei presta i soldi, non li regala. A fronte di 20-30 miliardi di prestiti destinati all’Italia, potremmo ottenere condizioni di favore più o meno per 200 milioni. Idem per il prestito che verrebbe all’Italia via Mes: possiamo calcolarci sopra un risparmio più o meno di 400 milioni. Facciamo la somma dei risparmi, Sure, Bei, Mes e bond: cosa viene calcolando il differenziale? Forse un miliardo, un miliardo e mezzo. Questo in termini strettamente economici, perché il Mes ha un suo differenziale politico.
Il ricorso al Mes è il tema più controverso di tutti. Le sue obiezioni sono note e sono anche le nostre. Cosa intende per “differenziale politico”?
Il Mes è uno strumento di trattato, quindi ha delle rigidità assolute; non si può usarlo fuori dal trattato. E poi il Mes riguarda l’area euro, la pandemia riguarda l’Unione, che è più grande. Se ragioniamo in termini di solidarietà europea, non si può considerare un’area e non l’altra che pure è colpita.
E le famose “condizionalità”?
Per come è scritto, il Mes prevede strutturalmente l’esistenza di condizioni. Non possono non esserci, lo dice il trattato. E “condizioni” porta con sé la parola “controlli”: condizioni e controlli sono inscindibili. Anche eventuali condizioni dal volto umano, riferibili a motivazioni sanitarie e “danni indiretti”, restano nella stessa logica.
Questo che cosa comporta?
Il conteggio degli investimenti è facile nel caso di un immobilizzo fisso, ad esempio se si decide di investire nella costruzione di un ospedale. Ma se assumi medici o infermieri, entri nella logica del costo pluriennale: quanto durano i rapporti di lavoro che hai generato? E come possono cambiare? Questo vuol dire controlli per tutta la durata del finanziamento. Ciò che si tende a ignorare è che, per trattato, il governo tedesco è legittimato a controllare e poi riferire al parlamento tedesco l’utilizzo dei soldi dei fondi del Mes. Ovunque e comunque siano destinati, questi sono anche soldi tedeschi.
Che conclusioni ne trae?
Si deve certamente dare per scontata al principio la più totale buonafede. Ma il dramma della pandemia è fatalmente e fortunatamente destinato a svanire e questo può portare alla tendenza ad effettuare controlli più fiscali. Non solo: il controllo non è comunque solo sull’utilizzo dei fondi, ma anche sulla loro restituzione. Seriamente va messo in conto un controllo non solo attuale, ma anche futuro.
Tutti aspetti che il dibattito ha ignorato.
Non mi pare che in Italia siano stati considerati. C’è anche un scenario ulteriore da tenere in conto. Supponiamo che l’Italia vada verso difficoltà sul suo bilancio pubblico: per un buco nelle entrate, per un boom delle uscite, per incertezze di mercato, per lo spread, eccetera. Può essere che per conseguenza di questo, l’Italia debba fare ricorso alla Bce in misura superiore a quella attuale.
Dove vuole arrivare?
La Bce compra proporzionalmente ai singoli Stati. Può fare acquisti superiori alle quote nazionali solo se un paese è sotto procedura. E il Mes è una procedura. Nel Parlamento italiano alcuni ti dicono che non è una procedura, ma alla Bce ti dicono che lo è. E che è sufficiente per legittimare acquisti non proporzionali. Se l’Italia arriva ad averne bisogno, è chiaro che le condizionalità del Mes non riguarderanno la salute della popolazione… ma la salute del pubblico bilancio.
A quel punto?
Il primo scenario che viene in mente è quello della patrimoniale: da tante parti la patrimoniale in Italia è vista nei termini wagneriani di un fuoco purificatore.
Un fuoco per purificare che cosa?
Frazioni della cosiddetta borghesia lo vedono come un evento penitenziale, riservando per sé il ruolo di penitenzieri e per gli altri quello di peccatori puniti. Non è detto che tale scenario si realizzi, soprattutto se le cose vanno bene. Ma se non vanno bene, votare Mes vuol dire votare patrimoniale.
Perché Angela Merkel ha suggerito all’Italia di mettere in ordine il suo bilancio?
No comment. Però una certa esperienza al riguardo è stata fatta nel 2011 con il governo Monti. È da quel mondo, e da coloro che vi sono sopravvissuti che può avere una risposta.
Lei ha proposto un “piano di difesa e ricostruzione nazionale” basato sull’emissione di titoli pubblici a lunghissima scadenza. Perché?
Dopo tutto quello che abbiamo detto, il perché è evidente. Noi abbiamo un enorme giacimento di risparmi privati. Quella è la via maestra. Non possiamo fare a meno della Bce, ma al punto a cui siamo arrivati, non possiamo neppure fare a meno dell’Italia. Servono l’uno e l’altra.
C’è un nodo politico fondamentale: chi può intestarsi questo piano, farsene garante davanti agli italiani?
Un piano del genere si basa sulla fiducia, e presuppone forze politiche che ispirano e ottengono fiducia. Queste non sono le forze politiche che per raptus coattivo un minuto dopo pensano alla patrimoniale o al prestito forzoso. Tanto per avere un’idea, nel 2012 il governo Monti picconò la fiducia rompendo il patto su cui si basava il rimpatrio di capitali. Potevi essere d’accordo o no, ma una volta che era diventato legge della Repubblica italiana, non dovevi infrangere quel patto.
Carlo Messina ha difeso l’ipotesi di bond sociali e di un rientro di capitali per far ripartire il paese. Ricorda la sua proposta. Carlo Bonomi ha detto che non è la strada migliore.
Viviamo e vedremo un tempo via via sempre più drammatico. Nel proporre un piano come quello di cui sopra ho citato a suo tempo il carteggio tra Togliatti ed Einaudi. Togliatti, che pur venendo da un mondo diverso era entrato perfettamente nel tempo che viveva, aveva appena firmato l’amnistia!
Scusi se insisto: come si crea la fiducia necessaria?
Non è solo una questione antropomorfa, è una questione politica più generale. Il grande prestito del dopoguerra era un atto di unità nazionale da parte di un mondo politico molto diverso al suo interno, diverso nelle posizioni politiche, filosofiche, religiose, ma unito nell’interesse del paese.
Una unità che oggi appare lontana.
È uno scenario che va costruito. L’unità è tanto assente quanto necessaria.
Un’ultima domanda. Si respira la convinzione che la faremo franca perché l’Italia è troppo grande per fallire. È così?
Escluderei il fallimento, ma vorrei un futuro diverso, e certo migliore di quello che avremo se non facciamo niente.
(Federico Ferraù)