Caro direttore,
che abisso deve aver intravisto Gesù di Nazareth in quella sera di primavera nell’Orto degli Ulivi, mentre i più cari amici erano incapaci di stare svegli in preghiera con Lui, e un altro amico si era già messo in moto per condurre i soldati a quel luogo segreto, intimo, che tante volte avevano probabilmente condiviso e che ora si apprestava a divenire il luogo del Suo arresto!
Che percezione di sé avrà avuto Cristo, pensando all’Ora che avanzava e al sacrificio della propria vita – già nitidamente proteso alla vittoria, ma pur sempre sacrificio – che Gli era misteriosamente chiesto e al quale non intendeva sottrarsi, nella coscienza di tutto il dramma e di tutta la sofferenza che questo comportava. Non era infatti quella la Sua vita normale, non era stata quella la Sua esistenza quotidiana per i tre anni in cui era passato per la Galilea, la Giudea e la Samaria, facendo del bene, diventando punto di rinascita per coloro che lo incontravano e fattore decisivo del proprio cammino per coloro che lo seguivano!
Eppure adesso le cose avevano preso un’altra piega e dentro di Sé crescevano le parole che poco prima l’evangelista Giovanni testimonia che il Signore avesse rivolto ai Suoi discepoli in quell’ultima cena in cui – letteralmente – consegnava loro la propria vita perché essi se ne alimentassero e la custodissero: “Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. E voi non siete più schiavi, perché lo schiavo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho chiamato amici”. Da quella notte essere amico di Cristo significa partecipare di quella vita donata, di quel pane spezzato, di quel vino offerto, al punto tale che si può dire che la Chiesa è nata a quella mensa e continuamente rinasce ogni volta che il rito ci permette non di ripetere quanto avvenne allora, ma di ritornare a essere misteriosamente presenti in quell’Ora. Senza la frequentazione di quel banchetto la nostra vita dunque muore, noi moriamo, e anche vivere perde per sempre il suo senso, il suo significato, facendoci diventare come zombie, attaccati al ricordo di un’esperienza che non è più presente e che, pertanto, si piega sempre di più alle nostre idee e alle nostre mille genialità.
I cristiani non possono vivere senza l’eucaristia. E certo queste parole, al vedere talune celebrazioni, sembrano poesia sprecata, tanto domina l’estraneità, l’aridità, la lontananza di chi celebra dal Mistero celebrato, imprigionato in una ripetitività che uccide, in una gestualità magica, ancestrale, senza alcuna passione per l’oggi e per questo tempo. Ma non è questo il punto: è infatti promessa del Signore che Egli continui a vivere e ci comunichi la Sua Grazia in quel gesto oggettivo, definitivo, indipendente dalla bravura o dalla santità, dal peccato o dalla sporcizia del celebrante, un gesto che racconta la Sua ferma volontà di volersi coinvolgere per sempre con ciascuna delle nostre esistenze per accoglierle, amarle e riempirle di una forza capace di renderle nuove, davvero vive.
Possiamo noi perdere questa vita? Possiamo noi sacrificare ciò che ci fa vivere? E’ questo un tempo, caro direttore, in cui misteriosamente ci viene chiesto – come a Cristo – di dare la nostra vita perché altri vivano, perché altri possano godere di un tempo nuovo e di una nuova primavera. E’ la grande pasqua della Chiesa italiana, chiamata a offrire se stessa per la salvezza di molti. Ed è normale che in questo Getsemani qualcuno cerchi di mediare, di negoziare, di poter allontanare da sé questo calice, ma il quadro complessivo dell’epidemia in corso ci dice che ad ogni riapertura, anche la più piccola, il fattore di contagio, il famoso R con 0, rischia di risalire, di crescere ancora e di tornare a seminare morte. Così, novelli Massimiliano Kolbe, prigionieri di un aguzzino senza scrupoli, deve crescere dentro ciascun credente, dentro questo corpo mistico che è la Chiesa, la forza del martirio, la forza di dire: “Prendi me, prima dei medici, prima degli anziani, prima dei ragazzi, prima dei commercianti, prima dei ristoratori, prima di coloro che tengono aperti musei, biblioteche, ti prego… risparmia tutti loro e prendi me!”. Che ci lascino per ultimi, esposti al rischio della morte, e che tutto ciò avvenga non secondo la nostra volontà, ma secondo la Sua Parola, la Sua strada, la Sua promessa, perché questo sangue di martiri sia seme di cristiani.
Su fratelli, su sorelle: cediamo il passo, facciamo largo a tutti gli altri! Che vivano, che si mettano in salvo, che il nostro sacrificio possa servire alla salvezza e al bene del nostro popolo! Certi che in fondo a questa lunga Pasqua, vedrà la luce il servo che non ha anteposto se stesso al dono cui era chiamato. Chi è disposto a rischiare? Chi è disposto a offrire se stesso, la propria vita, la nostra Messa, per gettare le reti da un’altra parte? Per vedere la potenza della Sua promessa? Noi gemiamo e piangiamo, ma non ci accorgiamo che Egli, segretamente, sta già facendo nuove, in noi e attorno a noi, tutte le cose.
Che ci lascino per ultimi a riaprire, a respirare. Perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.