Impensabili e davvero inaspettati i cambiamenti imposti dal coronavirus. Comportamenti di vita personale e sociale, pratica religiosa, modelli organizzativi, processi produttivi e stili di consumo sono stati stravolti da una forzata e repentina evoluzione, condizionata dalla prioritaria necessità di limitare il diffondersi del contagio.
A quest’onda d’urto non è sfuggito un settore ritenuto tradizionalmente ostico alle innovazioni come la Pubblica amministrazione, imbrigliata come appare, talvolta a torto e molte altre a ragione, nella difficoltà di gestire con efficienza, competenze e procedure relative ai diversi ambiti sociali ed economici dell’intervento pubblico, per traguardare quegli obiettivi d’interesse generale nella cui realizzazione l’apparato burocratico trova la sua unica ragion d’essere.
Ciò che sta accadendo a causa dall’emergenza epidemiologica in corso lascia emergere infatti, a questo riguardo, alcune prime ma fondamentali evidenze sulle quali vale la pena di svolgere qualche considerazione.
La prima è quella che ci induce a osservare come una condizione del tutto imprevista, qual è quella attuale, stia contribuendo in termini alquanto significativi a indirizzare l’operato professionale di molti dipendenti pubblici, almeno per stato di necessità se non per maturata consapevolezza organizzativa, verso un’effettiva cultura del risultato, che tende a farsi strada, pur tra inevitabili contraddizioni (settoriali e territoriali) e sfide professionali inedite, in un ambiente di lavoro notoriamente statico.
In questa cornice un secondo e decisivo elemento di novità è quello di un ritrovato protagonismo della persona che tende a riaccreditarsi, come le tante esemplificazioni più o meno note di questi giorni dimostrano, quale prioritario e costitutivo fattore di quella competente responsabilità che alle strutture pubbliche è richiesta nel servire un bene comune di cui, oggi come non mai, si avverte l’esigenza e che gli interventi normativi, così come le dinamiche organizzative, possono certamente favorire o al contrario ostacolare, se non addirittura compromettere, ma mai da sole riuscire a determinare.
Proviamo a spiegare meglio. In poco più di due mesi la Pubblica amministrazione è stata chiamata a misurarsi, nelle sue più diverse articolazioni, con l’immediata e mutevole attuazione di una sequenza normativa a carattere nazionale da Covid-19 costituita, sino a oggi, da 7 decreti legge e 11 Dpcm (acronimo ormai noto anche ai meno esperti), senza contare le ordinanze e le circolari ministeriali e del Dipartimento di Protezione Civile. A questo corposo insieme, destinato inevitabilmente ad accrescersi per la preannunciata adozione del nuovo decreto legge sulla fase 2 dell’emergenza, vanno aggiunte poi le ordinanze alla data odierna dai presidenti delle diverse regioni italiane (si pensi ad esempio alle 44 della Toscana, alle 24 delle Marche o alle 17 della Sicilia), così come tutti i provvedimenti emessi dai sindaci a livello comunale.
Tralasciando il contenuto delle analisi e delle riflessioni, anche critiche, che pure non sono mancate da parte di voci autorevoli del panorama giuridico italiano, come quella del Prof. Cassese a proposito della compatibilità costituzionale di un certo uso del Dpcm o della Prof.ssa Violini riguardo al coordinamento non sempre lineare e coerente tra livello centrale e regionale di governo, ciò che in questa sede merita di essere evidenziato è l’inedita circostanza di un’Amministrazione chiamata a fare fronte a urgenze esiziali per il prossimo futuro di cittadini e imprese in un tempo segnato dalla comparsa sulla scena dello smart working.
È questa la novità con cui i dipendenti pubblici stanno imparando a familiarizzare in tutta fretta a causa del virus, stante l’obbligo introdotto dalla stessa legislazione già richiamata di fare del lavoro agile, sino a cessata emergenza e anche in deroga ad alcuni passaggi normalmente preordinati alla sua attivazione, la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione di lavoro pubblico, ferma restando la necessità di provvedere all’individuazione delle attività indifferibili da svolgere, in ogni caso, “in presenza”.
In altri termini, un istituto da tempo giacente tra le pieghe delle norme e dei contratti collettivi di lavoro, ma sostanzialmente inattuato, sta interessando nell’arco di poco tempo un numero elevatissimo di dipendenti, con percentuali comprese tra il 60% e il 90% nelle amministrazioni centrali e di quasi il 74% nel comparto regioni, giusto per fare qualche esempio (dati Dipartimento Funzione Pubblica).
Impreparata a questa evenienza, per via di una carente infrastrutturazione tecnologica e di un processo di digitalizzazione ancora in mezzo al guado, l’Amministrazione italiana sta tuttavia funzionando, in questo momento, anche attraverso le prestazioni di personale che oltre a mettere a disposizione da casa il proprio PC, il tablet o anche il solo smartphone insieme alla connessione wi-fi si trova giornalmente o settimanalmente tenuto a fare i conti (ricordiamo che lo smart working è working prima che smart) con un’attività di monitoraggio e rendicontazione che, per quanto sommaria o scarsamente codificata nelle sue forme, sta ponendo le premesse di una più immediata e consapevole relazione tra il lavoro svolto ed i suoi obiettivi.
È così che un certo pragmatico realismo nello svolgimento dei propri compiti professionali, in vista dei risultati da produrre e documentare da casa, sta diventando un attore in grado di rubare la scena al più classico esercizio di doveri “formali” di presenza sul luogo di lavoro, determinando una condizione nella quale proprio la responsabilità personale, unita talvolta a una necessaria dose di creatività, assume inevitabilmente un ruolo più incisivo e virtuoso.
Senza immaginare un meccanico processo evolutivo, in cui anche l’incallito furbetto del cartellino si riscopre eroe (per caso) dello smart working, dobbiamo infatti riconoscere che quanto sta emergendo in molte esperienze che in questi giorni circolano nel confronto tra addetti ai lavori e che forse sarà utile conoscere e mettere a sistema, porta in sé qualcosa da trattenere, che va ben oltre la transitorietà di un’emergenza che del resto, anche nella revisione propria della cosiddetta fase 2, ci accompagnerà ancora per diverso tempo.
Senza averne piena consapevolezza siamo, infatti, di fronte alle prime avvisaglie di quel percorso di transizione culturale nell’approccio al lavoro pubblico che da tanto tempo viene evocato nel dibattito politico e sociale e che, per quanto “improvvisato” nei suoi attuali connotati a causa della circostanza che lo ha provocato, risulta in qualche modo già avviato.
È vero che la sburocratizzazione invocata in questi giorni per attuare le misure finalizzate alla ripartenza economica e sociale del nostro Paese, in tempi e forme compatibili con le esigenze di famiglie, corpi intermedi e imprese, deve tradursi in primo luogo nella semplificazione di un apparato normativo e procedimentale in cui anche l’Unione europea deve metterci parecchio del suo. Si tratta di un elemento imprescindibile in una fase nella quale altrettanto evidente appare la necessità di accompagnare questo processo di semplificazione con un rigoroso e accresciuto livello di attenzione contro ogni forma di infiltrazione criminale o di corruzione, specie considerando gli ingenti flussi finanziari che dovranno essere gestiti.
Quella appena richiamata è ciò che possiamo individuare come sburocratizzazione in senso oggettivo, senza la quale davvero non si va da nessuna parte. A tale riguardo basti pensare, ad esempio, alle preziose indicazioni che il contesto emergenziale sta fornendo a proposito della normativa sugli acquisti da parte della Pubblica amministrazione e sulle sue possibili evoluzioni utili a garantire effettivamente qualità, tempestività e trasparenza nelle forniture pubbliche.
Ma accanto alla sburocratizzazione in senso oggettivo ne esiste una di tipo soggettivo, che per lo shock organizzativo (e non solo) da coronavirus in qualche modo è già iniziata proprio attraverso il lavoro agile.
Sarebbe un errore fatale da parte dei decisori politici e dei diversi attori istituzionali disconoscere la forza e le potenzialità di questo inizio, ipotizzando il semplice ritorno a logori schemi organizzativi, possibilmente condito da una buona dose di retorica del cambiamento e accompagnato, magari, dall’unica o dominante preoccupazione di perseguire le responsabilità di chi in tempo di emergenza ha commesso degli errori o avrebbe comunque dovuto fare meglio. Si tratta, piuttosto, di non perdere l’occasione per consolidare ciò che l’esperienza di questo tempo inaspettatamente ci sta offrendo.
In primo luogo, attraverso la compiuta realizzazione del processo di digitalizzazione di una Pubblica amministrazione che (è bene ricordarlo) non è popolata da nativi digitali, ma da personale la cui età anagrafica media è di quasi 51 anni (fonte ministero dell’Economia). Ma c’è di più! Occorre infatti promuovere l’impegno necessario, tanto sul piano dell’analisi conoscitiva che delle possibili strategie d’intervento, per non disperdere i frutti di un percorso che l’epidemia ha già messo in opera tra molti di coloro che la battaglia contro il Covid-19 la stanno combattendo lavorando da casa e non più, almeno per ora, dietro la scrivania di un ministero o di un assessorato.
Ecco il punto: guardare a ciò che c’è e in qualche modo sta funzionando, cercando magari di comprenderne il perché. Si tratta di una “conversione” dello sguardo indispensabile, specie in questo tempo di prova, per consolidare anche sul piano delle scelte legislative e funzionali quello che di nuovo la circostanza attuale sta imprevedibilmente determinando all’interno di una comunità di lavoro così complessa e talvolta contraddittoria come quella pubblica.
L’itinerario non è privo di rischi: primo fra tutti quello di identificare il cambiamento nella perfezione di regole e processi organizzativi. Attendersi, infatti, dalla sola evoluzione normativa e tecnologica, peraltro ormai irrinunciabile, ciò che ultimamente scaturisce dalla tensione motivazionale e ideale della persona, come l’attuale contingenza lavorativa sta evidenziando, finirebbe per ridurre a nominalismo ideologico quel bene della comunità al cui servizio l’Amministrazione è posta e che nella sua dimensione originaria costituisce l’esito, in continua e dinamica evoluzione, di una libertà umana impegnata con le dimensioni più profonde e radicali dell’esistenza e con le dinamiche relazionali di carattere personale, sociale ed economico che da esse derivano.
Solo prendendo sul serio il cambiamento presente la circostanza attuale potrà rivelarsi determinante per quello futuro.