Lavorare per volere bene

Il 1° maggio è la festa del lavoro. San Giuseppe col suo lavoro ha accompagnato Gesù a scoprire quella verità che tutti siamo chiamati a ritrovare: che nostro Padre è un Altro

Sulla tomba di mio padre crescono fiori bellissimi. Le settimane di quarantena sembrano non averli neppure scalfiti, come se lui stesso avesse continuato a prendersene cura con quel suo bofonchiare che tanto manca nelle lunghe giornate di primavera. Nessuno ha conosciuto davvero san Giuseppe lavoratore finché non ha incontrato un padre. Nella mia vita ce ne sono stati tanti, al punto che Giuseppe è una delle figure che mi commuove di più da quante volte ho dovuto imparare a ri-conoscerla.

Mi ricordo piccolino, con un altro papà che spendeva tutto il suo tempo nel suo lavoro di metalmeccanico e che cercava, come poteva, di non far mancare alcunché alla nostra famiglia. Ma i soldi non bastavano mai perché erano sempre troppo pochi per mangiarci e per pagare le bollette. Così intorno ai primi del mese, quando il cibo – a pochi giorni dallo stipendio – scarseggiava, venivo messo su un pullman che mi portava tra le montagne della Liguria perché a me potesse badare per qualche tempo la nonna.

In uno di quei primi giorni del mese chiesi a mio padre di comprarmi una tombola. Non chiedevo mai nulla e, forse per quel motivo, i miei desideri erano accolti in casa con particolare solennità. Dalla cameretta sentii mio padre piangere e confidarsi con mia madre: la tombola costava 25mila lire e a noi erano rimasti in casa soltanto 30mila lire. Mi comprò la tombola e me la diede senza dirmi nulla, contento di sentirmi felice. Il giorno dopo fui messo sul solito pullman e non so come i miei se la cavarono per la settimana restante.

So solo che da allora per me un padre è uno che vuole comprarti la tombola anche se non può. Non posso immaginare che cosa succedesse in casa di Gesù, posso solo intuire che il lavoro in quella famiglia era il modo con cui si provava a volersi bene, con cui ci si consegnava reciprocamente dignità e in cui si coltivava il modo di vedere la vita trasmesso da chi quel lavoro lo aveva tramandato come la sua eredità più preziosa. Per molti secoli essere figli ha sempre coinciso col portare avanti il lavoro dei padri, non sempre in modo letterale: a volte portare avanti il lavoro significa portarne avanti lo sguardo, la passione, il cuore.

Non tutti sono stati fortunati nel rapporto col proprio padre: silenzi, violenze, sguardi, giudizi, hanno aperto in molti ferite quasi incurabili che rendono a volte un esercizio di vuota retorica il ricordo della figura del papà. Io stesso sono rimasto molto deluso dai miei padri e sinceramente mi sono sempre ritenuto un orfano con alcuni bei ricordi di volti semplici, austeri, segnati dal tempo e dal tormento. Forse è per questo che Dio ha scelto di spiazzarmi permettendomi di essere presente alla morte del mio ultimo padre: in quella stanza di ospedale, nel reparto di cure palliative, mentre per la paura di quanto vedevo venirmi innanzi continuavo a bere acqua e a mangiare banane, ho potuto scorgere con lui le prime luci del nuovo giorno, ho sentito accanto a mia madre la vita che gli scivolava via e mi sono sorpreso, proprio nell’istante in cui lui non c’era più, definitivamente figlio.

Nessuno sa che cosa ne sia stato di Giuseppe: alcuni studiosi dicono che la sua morte abbia così segnato il Cristo da spingerlo ad andare nel deserto e a scoprirsi anche lui figlio per sempre. In questa epidemia sono stati tanti i padri che ci hanno lasciato e pochi abbiamo potuto davvero piangerli. Una mia cara amica l’ha perso qualche giorno fa mentre apprendeva che dentro di lei stava fiorendo una nuova vita. Eppure sono tanti anche i padri che sono rimasti e che segretamente piangono perché comprendono che non avranno più un lavoro, che dovranno chiudere un’attività, ribaltare i piani per il futuro, rivedere le proprie promesse.

Ad un figlio non servono padri coerenti, ad un figlio servono padri che sappiano stare in silenzio, che li guardino, che con due parole riportino la realtà nella sua giusta dimensione. Non sarà un tempo facile quello che ci aspetta. Molti bambini rimarranno con desideri inascoltati, molti padri si sentiranno falliti e traditori. La verità è che il lavoro non ci serve per produrre, ma ci serve per volere bene. Non c’era opera di san Giuseppe che non affondasse le sue radici nel misterioso incontro con quella donna che era diventata sua moglie, non c’era giorno che non guardasse suo figlio senza la sensazione di essere impotente rispetto allo strano destino che sapeva essergli stato riservato. I figli non hanno bisogno di successi, i figli crescono nel respiro di un altro. E san Giuseppe col suo lavoro ha accompagnato Gesù a scoprire quella verità che tutti siamo chiamati a ritrovare: che nostro Padre è un Altro, che il bene alla nostra vita non si spegne quando la morte ci costringe a congedarci dalla loro terrena presenza, ma che tutto è destinato a compiersi misteriosamente in nuove strade e in nuovi sentieri.

Molti politici prometteranno lavoro, molti altri cavalcheranno la rabbia, la delusione, il senso di fallimento e la povertà. Ma nessuno di loro potrà rendere i fiori della tomba di vostro padre bellissimi. Quello potrà farlo solo lui, in quel disegno d’amore che porta un uomo a correre al sepolcro per resuscitare il proprio figlio, che porta un operaio a comprare una tombola.

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