“Dovremo convivere con il coronavirus per lungo tempo e non possiamo distruggere l’economia con provvedimenti punitivi, come è stato fatto per necessità nei mesi scorsi. Oggi dobbiamo assumerci qualche rischio. Non dico che si debba aprire tutto subito, è giusto ripartire gradualmente, con tutte le misure di prevenzione soft: mascherine, guanti, distanziamento, orari differenziati. Sarei invece più cauto sulla mobilità inter-regionale”. Giovanni Cagnoli, presidente di Carisma, holding di partecipazioni industriali dedicata allo sviluppo delle Pmi italiane, ed esperto di strategia aziendale, è stato tra i primi a mettere sul tavolo il tema della riapertura e dell’uscita dal lockdown. E alla vigilia della fase 2 ci tiene a ribadire un concetto essenziale: “Invece di ripetere continuamente ‘vi permettiamo’, ‘vi consentiamo’, ‘vi concediamo’, invece delle autocertificazioni, della burocrazia e dei controlli polizieschi di Stato, perché il governo non prova una buona volta a fidarsi della responsabilità dei cittadini e delle imprese, stabilendo regole chiare e semplici da seguire e da rispettare? In questi due mesi gli italiani hanno dato una grande prova di senso civico”.
È vero. Ma la domanda è: siamo pronti e siamo sicuri?
Così la questione è mal posta. Non potremo mai pretendere di essere sicuri, è irrealistico, il rischio zero non esiste. La vera domanda semmai è: siamo in condizioni di rischio tollerabile?
Lei cosa risponde?
Lo siamo ampiamente, considerando quello che sta succedendo anche negli altri paesi europei e considerando l’unico dato da seguire che è la mortalità. I casi che per settimane sono stati comunicati ogni giorno alle 18 sono irrilevanti, perché molto sottostimati rispetto alla realtà, mentre il dato della mortalità, che fotografa la situazione seppure con dieci giorni di ritardo, conferma che è in atto una decisa attenuazione del contagio.
Lei, tra i primi a porre la questione della ripartenza, aveva proposto un modello granulare. Ne è ancora convinto?
Sì. Le regioni hanno avuto curve di contagio assai diverse e quindi credo che più che politiche uniformi e univoche a livello nazionale sia più utile un approccio granulare, cioè verificando cosa succede in ciascun territorio e adottando misure coerenti con l’andamento dei dati. Ma la granularità prevede anche una differenza di età, perché sotto i 65 anni il tasso di mortalità risulta molto basso, mentre sopra gli 80 è preoccupante. Infine, va considerata la tipologia di assembramento: determinate attività non possono ripartire, penso per esempio ai cinema, altre invece non si capisce per quale ragione siano ancora chiuse. Perché non si può aprire un negozio in cui entra una persona alla volta? Non è certo più pericoloso che andare a far la spesa al supermercato. Impedirlo è solo una misura immotivatamente punitiva.
L’emergenza sanitaria sta rientrando, quella economica – forse ancora più drammatica – sta invece avanzando a grandi passi. Il governo per cercare di contrastarla ha varato una serie di provvedimenti, dal Cura Italia al decreto Liquidità e all’imminente “decreto Aprile”. Come valuta l’azione del governo su questo fronte?
Male.
Perché un giudizio così tranchant?
Prenda per esempio il decreto Liquidità. È stato annunciato in tv, il 6 aprile, dicendo che si era mobilitata una poderosa manovra da 400 miliardi. La pubblicazione in Gazzetta Ufficiale è arrivata il 10 aprile, e quattro giorni in questa emergenza possono essere decisivi. Siamo a inizio maggio e di quei 400 miliardi alle piccole e medie imprese forse è arrivato un miliardo, probabilmente meno. Se in un mese un decreto, considerato fondamentale, arriva a dispiegare il suo “vigoroso” impatto dell’1%, mentre negli altri paesi europei lo stesso tipo di provvedimento ha già erogato tutta la sua capacità di finanziamento, siamo in presenza di un grosso problema. In questione non c’è tanto l’attività di decretazione del governo, ma l’attuazione pratica, che risulta essere inaccettabilmente lenta e farraginosa.
Molti destinatari delle misure di sostegno varate dal governo si sono infatti lamentati di un’eccessiva burocratizzazione degli adempimenti e lo stesso premier Conte si è scusato con gli italiani per la lentezza e l’inefficienza con cui stanno arrivando gli aiuti.
È vero, ma è solo un’esortazione retorica, sono solo parole. Bisogna guardare ai fatti e in quel decreto ci sono errori tecnici imperdonabili, che lo rendono inefficace.
Quali errori?
Ne cito uno sostanziale. Il principio delle garanzie pubbliche al 90% è stato adottato per evitare l’azzardo morale, cioè il rischio di far arrivare questi soldi ad aziende che non li meritano. Ma in questa drammatica emergenza qualche azzardo morale è preferibile al ritardo che si è ingenerato. Con il 90% di garanzia la banca deve per forza fare l’istruttoria, che richiede tempo e un infernale iter burocratico.
Secondo lei, come si dovrebbero accompagnare le imprese italiane fuori dal lockdown?
La prima urgenza è ovviamente la liquidità. Un’azienda, avendo comunque dei costi incomprimibili da sopportare, dall’affitto alle bollette, dai fornitori da pagare alla cassa integrazione anticipata e non ancora rimborsata, se resta per due mesi senza fatturato, non vive, due mesi sono un tempo infinito. La liquidità deve arrivare adesso, al massimo entro questa settimana, altrimenti molte aziende chiuderanno.
Ma la liquidità promessa arriva sotto forma di debito…
E questo è l’altro problema, oltre a quello dei ritardi: in questo modo avremo altre aziende che lentamente moriranno di debito, perché non saranno in grado di rimborsarlo. Chi si illude, dopo che avremo riaperto tutto, che il mondo ritornerà come prima, non ha capito nulla. La gente si sentirà più povera, i consumi rallenteranno, il turismo soffrirà in modo terribile. Sarà una depressione, che è peggio della recessione. Le aziende non solo soffriranno questo mese, ma anche i prossimi dodici mesi in termini di perdite. Bisogna quindi aiutarle se non si vuole correre un rischio ben peggiore.
Quale?
In Italia la spesa per pensioni, sanità, istruzione, pubblico impiego è sostenuta dalle tasse dei privati, cioè le aziende. Se spariranno, non si incasseranno tasse e a un certo punto si cadrà in una spirale tremenda e insostenibile.
Non a caso molti hanno invocato il ricorso a finanziamenti a fondo perduto. Ma con il pessimo stato di salute dei nostri conti pubblici e del nostro debito pubblico, costantemente nel mirino della Ue, il governo può permetterseli?
Quest’anno sì, perché è una sorta di anno sabbatico, in cui vale tutto. Nessun vincolo europeo sarà invalicabile, anzi molti sono già stati rilassati dalla stessa Ue. Il problema è che noi ci trovavamo in una situazione di debito eccessivo già da prima del coronavirus. Questa pandemia aggiungerà altri 25 punti percentuali, portando, secondo le mie stime, il nostro rapporto debito/Pil al 170%. Una soglia non sopportabile.
Come uscire da questo crinale?
Ci sono due sole strade. La prima, quella che auspico: accelerare violentemente, costi quel che costi, sulla ripresa e sullo sviluppo economico, aumentando il denominatore. Quindi dare anche soldi a fondo perduto pur di mantenere in vita le aziende. Sembra un “regalo”, in realtà è un investimento, a favore della crescita e a garanzia futura dell’occupazione, del prelievo fiscale e della sostenibilità del debito. Ecco perché chi parla di decrescita felice andrebbe criminalizzato, perché prefigura il collasso dello Stato.
E la seconda strada?
Ahimè, è il default. Se il lavoro, le imprese, le tasse non sostengono adeguatamente questo debito, lo Stato non sarà più in grado di ripagarlo. Sarebbe una tragedia, soprattutto per i ceti più deboli.
L’Italia ce la farà a superare questa durissima prova?
Sì che ce la farà, per forza, anche se quest’anno il Pil calerà del 12% e stiamo precipitando in un buco. A patto, però, che tutti si convincano che la nostra possibilità di uscirne è legata allo sviluppo economico, creando lavoro e intrapresa. E facendo sì che l’iniziativa dei singoli, ora troppo ingessata e intralciata, sia resa più efficace nello scegliere gli investimenti giusti rispetto alla mano pubblica, perché quando lo Stato, cui spetta il compito di pensare alle infrastrutture e ai servizi essenziali, ha voluto fare l’imprenditore, ha fallito, Alitalia docet solo per citare un esempio.
In una relazione tecnica consegnata all’esecutivo, l’Istituto superiore di sanità e il Comitato tecnico scientifico hanno messo in guardia Conte dall’eventualità di un veloce collasso delle terapie intensive, con una stima di 151mila ricoveri già ai primi di giugno. Voi avete “contestato” queste cifre. Perché?
Quel documento pubblico, sulle cui evidenze il governo ha basato le sue scelte per la fase 2, presenta un errore marchiano, poi chiarito anche dall’Iss nella risposta alle nostre osservazioni: pensare che in terapia intensiva debbano andare tutti quelli che si ammalano, il che è contraddetto dai fatti e dalla logica. E su tutto questo avrei alcune perplessità.
Prego.
Innanzitutto, trovo strano che il premier Conte abbia sempre giustificato le sue scelte ammettendo che seguivano le indicazioni di un Comitato tecnico scientifico, che per due mesi non dice niente all’opinione pubblica, non ha scrutinio, non passa dal Parlamento. Ora, dopo due mesi, esce il primo documento ufficiale del Cts. C’è un problema di trasparenza. In secondo luogo, in questo documento c’è un errore macroscopico, il che pone anche una questione di competenza. Terzo punto: perché è stata scelta la Fondazione Bruno Kessler? Perché non altre università, visto che in Italia ce ne sono di eccellenti? E perché non attivare magari il lavoro di due istituzioni scientifiche in concorrenza confrontando e ragionando su due modelli epidemiologici diversi?
(Marco Biscella)