Anche qui ci si potrebbe chiedere la stessa cosa che ci siamo chiesti per Bombshell: quante volte si può raccontare la stessa storia? Il punto però, ovviamente, è anche il come la si racconta. Tornare a vincere, il film di Gavin O’Connor che è uscito in questi giorni direttamente on demand sulle principali piattaforme, lo dimostra pienamente.
La storia che racconta è, appunto, ampiamente raccontata: ex-stella del basket che affoga il dolore nell’alcool, beve birra sotto la doccia e scambia il caffè col whiskey, ha una possibilità di riscatto quando il suo liceo gli chiede di risollevare i fasti della squadra. Scritto assieme a Brad Ingelsby, Tornare a vincere sceglie però una strada un po’ diversa rispetto ai suoi predecessori per raccontare l’elaborazione del lutto e le possibilità della seconda chance.
A partire dal registro crepuscolare su cui si modella tutto il racconto e la messinscena, con la malinconia e il dolore a fare da basso continuo come la musica di Rob Simonsen che fa da contro canto anche ai successi sportivi, senza il trionfalismo tipico del cinema americano cercando sotto traccia di rileggere i cardini del filone: O’Connor è uno di quei professionisti solidi senza troppe smanie (come Peter Berg) che però sanno raccontare una storia e soprattutto sanno ritrarre gli Stati Uniti e gli americani meglio di molti altri.
In questo caso, sceglie di fare il ritratto principalmente di un uomo, di un maschio americano che accanto agli stereotipi sugli attributi da tirare fuori è anche una persona fragile che si confronta con le proprie emozioni, la capacità di capire gli errori, il confronto con le richieste di una società; e a partire da questo ritratto mettere una pietra sopra alla filosofia della seconda possibilità tipica della mentalità americana.
Tornare a vincere poggia quasi tutto il suo peso sul volto, la voce, il corpo di Ben Affleck, il quale ripaga il film con quella che forse è la migliore prova di una carriera (attingendo alla propria vita), uno di quegli schiaffi rivolti a chi pensa che sia un pessimo attore e confonde l’espressività con la mobilità facciale; ma è anche il segno che O’Connor abbia capito come dirigerlo e come usare lo sport, non come fine spettacolare della pellicola, ma come mezzo per esaltarne le emozioni e i personaggi.
Come se l’attore chiudesse il trittico di grandi attori alle prese con storie del genere, ovvero Gene Hackman in Colpo vincente e Nick Nolte in Basta vincere. Una specie di trilogia a tema che è anche uno studio in divenire sui propri protagonisti e un piccolo saggio sulle infinite possibilità che la stessa storia ha di generare buoni film.