Al tempo dei social, del mondo in un telefonino, la comunicazione, la velocità e la costruzione dell’immagine sembrano essere tutto. E infatti noi abbiamo ancora negli occhi i quindici aerei cargo, gli enormi Ilyushin II atterrare a fine marzo a Pratica di Mare, simbolo di un paese forte, generoso, capace di gestire la crisi pandemica e al contempo di portare “dalla Russia con amore” aiuti al popolo italiano. Sembra un secolo fa. Ma come ben vediamo nel nostro paese, non si può gestire una crisi devastante con l’apparenza, il consenso generato dal soft power svanisce presto.
In queste ore terribili ogni Stato, ogni comunità è costretta ad affrontare al suo meglio la tragedia della nuova peste nera. Il sudario invisibile, che tutto avvolge, costringe il mondo ad un esame disincantato degli avvenimenti perché mostra in modo manifesto pregi e difetti di ogni sistema sociale. “Covid 19 – secondo le parole di Leon Aron, analista dell’American Enterprise Institute – ha infatti esacerbato tensioni e manifestato inadeguatezze economico-sociali, testato forza e legittimità delle istituzioni come la fiducia nelle leadership nazionali”.
E gli elementi di crisi nella grande Russia non sono da poco perché la criticità della pandemia si è intrecciata con la crisi mondiale che sconvolge i mercati petroliferi mostrando in modo palese le fragilità strutturali dell’intero sistema post-sovietico.
In Russia nelle ultime 24 ore sono stati registrati 13.239 nuovi casi di coronavirus e il totale di contagiati ora ha raggiunto quota 125.817, e ancora il picco non è stato raggiunto. Questi però sono i dati ufficiali che niente dicono sulle modalità di gestione dell’epidemia da parte di Mosca, conduzione che invece sta dimostrando tutte le debolezze del sistema Putin, costretto, come al solito, a nascondere sotto un’ostentazione di potenza, ben costruita e recitata, la verità.
Tolto il velo della propaganda, troviamo la realtà di un paese con un sistema sanitario mal funzionante, un’assistenza sociale scarsa, sotto stress proprio nei suoi gangli vitali come quelle aziende-villaggio siberiane dove il coronavirus viaggia a forte velocità. E tornano alla ribalta gli antichi problemi dettati dalla vastità e diversità incredibile del territorio, con la difficoltà di coordinare il centro con le periferie e i loro desideri di autonomia se non anche di indipendenza da Mosca.
D’altronde Mosca è entrata nella crisi sanitaria con un’economia debilitata. Da dieci anni il paese si trova in una stagnazione profonda, con il 12% della popolazione, 18 milioni di russi, al di sotto della soglia di povertà, con in tasca meno di 11.000 rubli al mese, pari a 146 dollari. Ancor più eclatanti sono i dati diffusi dall’Agenzia russa di statistica per cui, nel 2019, l’80% delle famiglie non poteva comprare un assortimento di beni significativo e il 35% delle famiglie non aveva a disposizione per ognuno dei suoi membri nemmeno due paia di scarpe. L’epidemia ha d’altronde un costo economico stimato sulla perdita di tre punti di Pil per la fine del 2020, facendo perdere il lavoro a 8 milioni di russi, senza contare che una parte notevole della popolazione specialmente nelle piccole città e nelle campagne svolge lavori precari o in nero. Dati che ci dicono una cosa semplice. In Russia manca quella classe media che è la base di ogni democrazia moderna e la crisi non fa altro che esacerbare il divario tra i ricchissimi e corrotti oligarchi e il resto della popolazione ancora troppo povero.
La scommessa di Putin era che questi enormi costi potessero essere finanziati completamente dalle riserve del National Wealth Fund, cassaforte dove vanno a finire i petrodollari che avrebbero dovuto ammontare il prossimo dicembre a qualcosa come 95 miliardi di dollari. Il tutto se il prezzo del petrolio fosse rimasto stabile a prima della crisi.
Ma Putin ha giocato male la mano nella partita della guerra del petrolio. A marzo ha rifiutato la proposta dei sauditi di tagliare la produzione per far fronte alla caduta del prezzo, a sua volta causata dalla contrazione della domanda, con l’intento di incunearsi tra Ryad e Washington con l’obiettivo di mettere fuori gioco gli Stati Uniti. Calcolo sbagliato. Trump è riuscito a trovare un accordo con l’amico saudita, che aveva scatenato una corsa al ribasso spaventosa, ed il cartello dell’Opec plus e la Russia si sono dovuti accodare. Ma a che prezzo! Il taglio della produzione petrolifera previsto è di quattro volte superiore delle proposte degli emiri di un mese fa. Adesso i pozzi russi devono pompare 2,5 milioni di barili in meno degli 11 attuali, ritornando ai livelli del 2003.
Ma il petrolio, a differenza che per gli Stati Uniti, è tutto per la Russia. Con un sistema produttivo arretrato, una produttività bassa, e con investimenti in ricerca e sviluppo non importanti, le materie prime sono la fonte della ricchezza di quel paese. Se dovessero diminuire in modo significativo quelle entrate, le crepe già esistenti dell’intero sistema si allargherebbero in modo pauroso. Perché la Russia è un colosso che basa tutta la sua forza sulla proverbiale resistenza del suo popolo, sulla costruzione della sua identità imperiale e cristiana, erede dei Cesari. Ma le sue basi sono fragili, nonostante gli sforzi di proiezione all’esterno della sua forza militare, nonostante i successi in Siria, l’annessione della Crimea, le prove di forza in Ucraina e in Georgia.
Paese impossibile da conquistare dall’esterno, come dimostrano la vicenda di Napoleone e poi di Hitler, è però imploso più volte a causa delle sue debolezze sistemiche. Nel diciassettesimo secolo, quando le guerre dinastiche favorirono l’occupazione polacca e financo la conquista di Mosca. Nel 1918, quando l’impero russo fu travolto a causa della politica dissennata dei Romanov che portò alla rivoluzione russa. Nel 1989, quando il muro a Berlino cadde e tutto travolse: l’Urss, l’impero sovietico ed il comunismo.