In tutta Italia è iniziata la fase 2 dell’emergenza coronavirus con la graduale uscita dal lockdown. Quattro milioni e mezzo di italiani sono tornati al lavoro, utilizzando i mezzi pubblici. Ma gli scienziati restano cauti: se tornano a salire i contagi, si chiude di nuovo tutto. E lo stesso premier Conte ha avvertito: “Il 4 maggio non è il liberi tutti, serve il buon senso”. Ma per Antonio Intiglietta, presidente di Ge.Fi e imprenditore vicino al mondo degli artigiani e delle micro imprese, il buon senso da solo non basta: “E’ il momento della responsabilità e della corresponsabilità. Il tema vero della ripartenza è che il grande nemico della responsabilità per costruire il bene di tutti è il tornaconto individuale, il proprio calcolo di potere. L’Italia è come se oggi fosse una pentola a pressione: c’è tanta creatività, disponibilità e solidarietà che spinge per poter esserci, per emergere. Bisogna dare respiro a tutto questo, ascoltando chi vive la realtà ogni giorno, non i guru”.
Intanto, dopo l’approvazione con riserva degli esperti, l’Italia sta entrando gradualmente nella fase 2. Come ci arrivano le piccole imprese e gli artigiani dopo 2 mesi di lockdown?
Gli artigiani e le micro imprese a stragrande maggioranza sono ancora nella fase 1, perché gli artigiani hanno bisogno del mercato per poter vivere. Se non riprendono eventi, esposizioni dirette al pubblico, fiere, non possono ripartire. Alcuni sono totalmente fermi, come il comparto dell’arredo che lavora sugli ordini o la produzione del tessile.
Quali sono, allora, le loro attese?
Che innanzitutto possa riprendere il rapporto diretto con il pubblico. Altrimenti per loro non c’è possibilità, non c’è fase 2. La ridefinizione minima di possibilità di esistere non definisce una ripartenza, ma un galleggiamento.
Con quali conseguenze?
Il punto vero è che la fase 2 ha senso per molte imprese artigiane se propedeutica alla normalità, che è per loro essenziale e vitale per esistere. Noi siamo in contatto con moltissimi artigiani, italiani e non solo, dall’Africa al Sudamerica, dall’India all’Europa, e sono tutti con il cuore in gola perché per loro Artigiano in Fiera 2020 è un’àncora di speranza da cui può nascere una vera ripresa. Tutte le altre manifestazioni fino ad agosto sono già state cancellate e quelle di settembre sono fortemente in discussione.
“Il 4 maggio non è il liberi tutti, serve il buon senso” avverte il premier Conte. Può bastare? O la parola d’ordine della ripartenza dovrebbe essere un’altra?
Ognuno deve pensare al bene di tutti e non al proprio tornaconto. La responsabilità – ecco la parola d’ordine – non è una questione a compartimenti stagni, ma una questione di compartecipazione al bene comune.
Anche nell’ambito politico?
Sia nella maggioranza che nell’opposizione la dinamica politica, purtroppo, è ancora troppo determinata dai calcoli del consenso piuttosto che dal desiderio di costruire insieme una prospettiva costruttiva e positiva per tutti. Non c’è qualcuno che deve dare lezioni a qualcun altro, abbiamo bisogno di metterci insieme, in modo accorto, prudente e intelligente, per supportarci a vicenda nella costruzione di una socialità condivisa, di una prospettiva affacciata sulla normalità.
Che cosa occorre mettere in campo?
Bisogna avere piena consapevolezza delle proprie capacità e dei propri limiti, del bisogno di un dialogo fruttuoso con tutti e della disponibilità ad anteporre all’affermazione di sé l’interesse di tutti. E’ questo il punto di maggior debolezza che stiamo vivendo. Perché non mettersi tutti insieme per capire quali sono i percorsi che ci possano accompagnare verso una ripresa della normalità, senza velleitarie fughe in avanti ma con tutta l’intelligenza, la creatività e la solidarietà di cui gli italiani sono capaci? Il nostro paese ha enormi potenzialità.
In questo frangente difficile Ge.Fi. in che modo sta affiancando gli artigiani?
Noi stiamo lavorando il doppio di prima per poter individuare percorsi, soluzioni e tutte le possibilità di lavoro per sostenere la promozione e lo sviluppo dei nostri artigiani. Possibilità che saranno applicate in funzione di quello che accadrà. Oggi nessuno sa dove saremo fra due o tre mesi. Ma una cosa la sappiamo tutti: desideriamo tutti ricominciare a costruire e ricominciare a incontrarsi. Da qui si parte e si lavora insieme. Non è tanto sapere quanto oggi si porta a casa – anzi siamo consapevole che nel breve non ci guadagniamo in termini economici -, ma come possiamo, dialogando con i nostri artigiani, con i nostri fornitori e con il sistema fieristico, perseguire insieme il massimo dell’obiettivo: sostenere il bene di tutti. E’ il tempo in cui ciascuno deve sacrificare un pezzo di sé per il bene di tutti.
Insomma, secondo lei l’incapacità di ascoltare gli altri è oggi il punto più dolente di questa fase 2?
Sì. E’ impensabile e insostenibile l’incapacità di ascolto, di cogliere il positivo dell’altro, di valorizzare il bene che arriva dall’altro. E questa incapacità ha una sola radice: il ripiegamento su se stessi piuttosto che sull’altro da guardare e da abbracciare. E su questo punto vorrei raccontare un bellissimo esempio.
Prego.
Mi ha chiamato un’artigiana, ferma ormai da gennaio, e mi ha detto: come posso aiutare Ge.Fi. a resistere per un anno, come posso contribuire perché un punto così possa rimanere? Non mi ha chiesto: come mi puoi aiutare perché io possa esporre i miei prodotti. La prima domanda è: come io posso aiutare te che riconosco come bene per me perché tu ci sia? Questa domanda dovrebbe diventare il punto centrale attorno al quale tutti lavorano insieme. Ci vuole una sana umiltà e una disponibilità a mettere da parte il proprio tornaconto immediato, fosse anche il consenso politico.
A tal proposito, e tornando al concetto della responsabilità, dove il governo deve correggere il tiro dopo gli atteggiamenti e i provvedimenti adottati dall’inizio della pandemia a oggi?
Abbiamo davanti due nodi. Sul fronte della riforma socio-sanitaria, il governo dovrebbe creare un punto vero di lavoro, non basandosi su esperti, consulenti o task force, ma ascoltando il territorio e il terzo settore, per domandarsi come l’emergenza coronavirus ci interroga e quali interventi sono necessari in tempi brevissimi, così da farci trovare pronti entro l’autunno.
E il secondo nodo?
Mettersi in dialogo con tutto il sistema economico, associazioni, sindacati e mondo delle fiere, che in tutta Europa stanno già tutelando perché è un asset strategico per lo sviluppo della piccola e micro impresa, per rispondere a una domanda: come ripartire davvero? Non abbiamo bisogno di guru; gli esperti sono coloro che vivono, coloro che sulla loro pelle stanno costruendo il presente per affrontare il futuro. Abbiamo bisogno di interloquire con la realtà e con coloro che la realtà la costruiscono ogni giorno. E’ questo il passaggio chiave per uscire dalla logica, ancora predominante, dell’affermazione di sé e della propria fragilità di visione o della propria presunzione di governo senza metterci in quel sano atteggiamento di ascolto.
A dire il vero in questi ultimi due mesi abbiamo assistito a un progressivo affermarsi del paternalismo di Stato. Non potrebbe essere anche sussidiarietà un’altra parola chiave per uscire più forti dal lockdown?
Non è la parola chiave, è il metodo, è molto di più. La sussidiarietà è la forma, è il modo con cui ne veniamo fuori. La corresponsabilità è una capacità di mettersi insieme per cogliere le esperienze e i contributi di tutti. Chi è il primo a essere interessato ad aprire la propria azienda senza mettere a repentaglio la sicurezza di quelli che vi lavorano? E’ chi fa l’impresa. Quindi, occorre definire alcuni criteri e condividere spunti e opportunità che nascono dal mondo reale. Tutto questo si chiama sussidiarietà, che è anche libertà di azione, senza quella burocrazia che blocca e che soffoca. Dobbiamo adottare ovunque il metodo ambrosiano.
In cosa consiste?
Vale più raggiungere lo scopo che mettere i paletti. E’ quello che è stato fatto a Milano costruendo, con i soldi dei privati, una fiera di 2 milioni di metri quadri in due anni, che ha generato valore per 6 miliardi. Ed è quello che è stato fatto recentemente con il nuovo ponte di Genova.
Oltre all’eccesso di burocrazia e alla giungla delle procedure, il coronavirus potrebbe lasciarci in eredità un seme avvelenato: diffidenza, paura e mancanza di speranza possono minare la fiducia, la trama di rapporti che è la moneta sonante della ripresa e della convivenza. Come si può vincere la paura, ricostruire la speranza, riscoprire l’audacia?
Il coronavirus porta a galla, esasperandolo, l’atteggiamento con cui ciascuno vive e parte dentro la realtà. Se uno vive e parte pensando che è un dono di sé per il bene di tutti e anche di se stesso, sta già vivendo, ripartendo e incontrando gli altri così. Chi invece insegue una logica individualistica, fine a se stessa, sta ulteriormente esasperando questa posizione. Bisogna valorizzare il buono che c’è, ed è tanto. Non si cambia la società per imposizioni o per norme, ma per esperienze di positività che si impongono per la loro bellezza e positività. Dobbiamo dare più che mai respiro a tutto questo.
(Marco Biscella)