Caro direttore,
la cosiddetta didattica a distanza, la Dad, è l’estremo colpo a una scuola agonizzante e stremata da “riformicchie” a costo zero, basata ancora sull’impalcatura dello Stato ottocentesco e iniettata da una “pseudodemocratura” dei genitori a partire dagli anni Settanta.
Sull’onda emergenziale di un virus letale, la scuola si è arrangiata secondo un’arte italica ben collaudata in tutti i campi per garantire il diritto costituzionale all’istruzione. Ma il format didattico, consolidato da una routine rassicurante per ogni docente, cioè lezione-verifica-valutazione, è stato divelto dalla fase storica che stiamo vivendo, e la digitalizzazione delle lezioni ha portato una ventata d’aria fresca nelle aule virtuali di piattaforme di cui la scuola si è dotata.
Allora, se il docente italiano non ha mai speso i famigerati 500 euro per aggiornarsi, ma per comprare computer e dispositivi simili, è ora inondato da webinar d’ogni sorta e su tutto lo scibile umano: sarà una strategia per tenere il docente impegnato senza ammattire nella forzata clausura nella grandi città del Nord, inquinate da un virus, che – si vocifera – sia scappato da qualche laboratorio segreto nella lontana Cina?
Allora che cosa può essere questa didattica a distanza?
Qualcuno, in maniera semplicistica, vede la mera trasposizione di un fare scuola improntato al sapere nozional-trasmissivo-mnemonico: al centro c’è il docente, detentore di un sapere che serve ben poco a nativi digitali analfabeti funzionali, che si affidano a un motore di ricerca per informarsi e formarsi. In ciò sta forse il dramma e la sfida di questi tempi moderni, come nel film di Chaplin; cioè manca il senso critico, si sarebbe detto un tempo. Dunque la didattica normale si camuffa in e-learning e il medium è il computer, con cui interfacciarsi, con probabili vantaggi di ogni attore coinvolto: docente che pontifica, alunni che si disinteressano e non devono far finta di stare attenti.
Ma c’è anche un pensiero divergente dal main-streaming: la didattica a distanza diventa la sistematizzazione virtuale di un sapere destrutturato, tipico di una società liquida, che richiede competenza; la didattica si esprime, come l’Uno plotiniano, in enneadi disperse in powerpoint, video, chat e simili: il docente diventa un regista-prestigiatore di vari output di conoscenze confezionate e liberamente disponibili su internet. Chi tra noi docenti ha il tempo materiale di preparare, per ogni singola lezione, materiali originali e adeguati, sì mettendo a frutto in questo fare la tanto invocata libertà di insegnamento? Iniziamo a contarli…
Allora, ortodossia didattica e rivoluzione digitale sono i due estremi su cui, da settembre, la scuola italiana sarà chiamata a rigenerarsi non solo a livello organizzativo: dovrà trovare nuovi fondamenti epistemologici del suo essere agenzia formativa ed educativa delle nuove generazioni. La scuola come parcheggio e come baby-sitter è solo una polemica facilona di una questione che andrà affrontata. Il lockdown è stata la prima grande occasione dal dopoguerra per far sentire allo Stivale i calli induritisi durante anni di abbozzate riforme, mancate prese di posizione, rimandi e incuria; che cosa ci aspetta all’apertura di un Paese messo in quarantena?
Per la scuola – ora è quasi ufficiale – è rimandato tutto a settembre, nella speranza che le task-force producano proposte attuabili per un avvio sereno dell’anno scolastico. Ma forse ci attenderanno ancora video-lezioni che intaseranno le mattine di studenti assonnati, ancora più presi dal mondo virtuale del web. Il coronavirus ha il “merito” di far fare una rivoluzione copernicana alla nostra scuola, cioè di farla traghettare dall’essere superstite di se stessa quale pachiderma ottocentesco alla scuola light delle competenze, delle esperienze, delle varie educazioni, in quanto i tradizionali stakeholders della formazione, dell’educazione, dell’istruzione sono venuti meno in una società iper-tecnologica e liquida.
(1 – continua)