Ai farmaci anticoagulanti si attribuisce la sopravvivenza di alcuni malati di Covid-19, ma uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine evidenzia che il 20 per cento dei pazienti esaminati ha avuto un prolungato tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT) e nel 90 per cento di questi casi di coronavirus la causa era il lupus anticoagulante, associato ad un rischio di trombosi. I ricercatori hanno spiegato che servono ulteriori studi per determinare se questo sia il motivo per il quale si verificano trombosi in alcuni pazienti positivi al nuovo coronavirus, ma invitano anche alla prudenza riguardo l’uso di anticoagulanti a dosi terapeutiche e profilattiche. La comunità scientifica è divisa sul tema, però non pone ostacoli. «Riteniamo che un apTT prolungato non debba costituire un freno all’uso di terapie anticoagulanti nella prevenzione e nel trattamento della trombosi venosa nei pazienti con Covid-19», sostengono i ricercatori. «Secondo noi i medici non dovrebbero negare l’uso di anticoagulanti per la trombosi in attesa di ulteriori indagini sull’aPTT prolungato».
LUPUS E CORONAVIRUS, ANTICOAGULANTI E RISPOSTE INFIAMMATORIE
Gli scienziati della Emory University invece in un recente studio, pubblicato su medRxiv, evidenziano che le cellule B extrafollicolari potrebbero essere un marker di infezione grave, quindi potrebbe dare la possibilità di intervenire con una terapia prima che l’infezione si aggravi. Sono quattro comunque i risultati cruciali raggiunti da questa ricerca. I pazienti Covid-19 con sintomi gravi sviluppano un numero maggiore di cellule che secernono anticorpi nelle prime fasi dell’infezione, ma questo non aumenta la loro protezione. Anzi, questa “tempesta immunitaria” peggiora la loro prognosi: le citochine infatti aggravano l’infiammazione. Inoltre, hanno scoperto somiglianze con le risposte infiammatorie del coronavirus e quelle che emergono nei gravi disturbi autoimmuni, come il lupus. In terzo luogo, la progressione del Covid-19 potrebbe essere legata all’attivazione dei linfociti B, che quindi possono servire come marcatore immunologico dell’infezione grave da Covid-19 nelle fasi iniziali e permettere di identificare un sottoinsieme di pazienti che potrebbero beneficiare di una terapia immunomodulatoria per alleviare il peso della malattia.