Silvia libera è un tuffo al cuore, una speranza realizzata; dobbiamo essere soltanto lieti, grati, festosi. Silvia è libera per un intervento delicato e preciso dello Stato, che non deve mai abbandonare i propri cittadini.Che Silvia si sia convertita, è una notizia, e non era possibile nasconderla, o fingerla irrilevante. Ed è penoso leggere le tifoserie scatenate, entrambe irrispettose e ottuse, a dichiarare da un lato lo scandalo per il presunto tradimento, dall’altra l’esaltazione di una scelta di libertà.
Fa male leggere titoli come “abbiamo pagato per liberare un’islamica”. Si paga per liberare una persona, qualunque sia la sua fede, identità, etnia, età, salute fisica o mentale. Ci mancherebbe. Fa male anche leggere la rivendicazione orgogliosa di una scelta, l’appaiamento sullo stesso piano di tutte le fedi, come se fosse possibile non distinguere tra cristianesimo e islamismo radicale
Io non ci ho dormito, a vedere quella ragazza dal dolce sorriso arrivare all’aeroporto col barracano verde, il colore dell’islam, e con un altro nome. L’abbraccio con la mamma è stato così commovente da consolare, e dar spazio alla priorità: è viva. Questo conta adesso, questo è il motivo di gioia.
D’altro non è dato parlare, entrare nel buio di una coscienza ferita da 19 mesi di paura, solitudine, ombre. Chiusa in prigioni di fortuna, sempre diverse. Soltanto e sempre con uomini. Come avrà chiesto medicine, come si sarà lavata, come avrà gestito la sua intimità. C’è da impazzire solo a pensarlo. Il suono del muezzin, a scandire le ore. Il fanatismo folle dei carcerieri che davvero credono che convertire una vittima sia un merito.
Non l’avranno forzata, forse. Più forzati che essere prigionieri di assassini, armati, col volto coperto, non saprei immaginare. A tutte le anime belle che gratificano le belve enfatizzando il loro buon cuore, ricordo la strage degli studenti cristiani di Garissa. Ricordo la dottoressa maciullata col machete solo qualche anno prima a pochi passi dal villaggio in cui lavorava Silvia. Bisogna leggere Domenico Quirico, l’unico che ha facoltà di parola, essendo stato nelle mani dei boia, essendo da sempre in prima linea a calpestare quei terreni insidiosi, per raccontarne gli attori.
Purtroppo la fotopportunity del presidente del Consiglio e del ministro degli Esteri, neanche in accordo tra loro, è stata un regalo insperato per quei mostri maligni, incassatori di un cospicuo riscatto, e anche angeli custodi di una ragazza “trattata bene”, e che “spontaneamente” si è velata dal verde della loro fede distorta. Un’impeccabile operazione di propaganda, peraltro non nuova, ma la memoria, causa mancato studio della storia, è esiziale, soprattuto per chi scrive sui giornali e la cronaca la racconta.
Tutti gli ostaggi che con sapienti operazioni di intelligence e un po’ di fortuna abbiamo riportato a casa sono apparsi mutati, velate le donne, incolte le barbe gli uomini, molti hanno dichiarato di aver cambiato nome. Il nome, il volto, chi sei, sradicato dalla paura. Il protagonista della prima serie di Homeland è un’icona di questo lavaggio del cervello criminale.
Spiace, ma tocca anche chiedersi se sia giusto pagare un riscatto, per liberare un nostro concittadino. Quanto vale la vita di un uomo? Immensamente, già detto. Ma senza ingenuità bisogna riconoscere che i soldi per una liberazione serviranno a rimpinguare le casse ben fornite del terrorismo peggiore al mondo, sostenuto da servizi di mezzo Oriente e pronto da domattina a spargere morte nel cuore dell’Africa, per ora dell’Africa. Grazie a Dio siamo Italia, e facciamo di tutto, anche ciò che sarebbe illecito, per salvare una vita, che è bene comune.
Ma in silenzio. Senza pubblicità. Senza esibire l’ostaggio graziato come un trofeo di periclitanti governi. Senza gare a farsi fotografare, senza ammissioni esplicite sul riscatto, ringraziando pure operazioni di intermediari che non dovrebbero essere nostri amici, né alleati.
Abbiamo ricordato il 9 maggio la morte di Aldo Moro. Ecco, l’Italia non ha pagato per tutti, non ha trattato con tutti. Se ha cambiato idea, tenga presente che il rispetto dovuto alle vittime esige silenzio, rigore, compostezza. La stessa che dovrebbe ispirare un giornalismo intelligente e onesto, che non gratta ventri pelosi, né offre il fianco per fervore ideologico alla propaganda jihadista.