L’azienda italiana IRBM, che collabora con lo Jenner Institute della Oxford University per la messa a punto del vaccino contro il coronavirus, ha fatto delle precisazioni sulla notizia pubblicata dal Telegraph e ripresa dal Fatto Quotidiano. «I dati mostrano inequivocabilmente che gli animali non vaccinati presentavano chiare prove di polmonite virale all’autopsia, ma nessuno di quelli vaccinati aveva invece contratto la polmonite». Negli animali vaccinati non è stata osservata, quindi, «alcuna evidenza di malattia immunitaria potenziata a seguito di sfida virale». Ai microfoni di Radio 1 Giorno per giorno è intervenuto Piero Di Lorenzo, presidente e amministratore delegato di IRBM, spiegando che «il macaco non si è ammalato», ma «è stato evidenziato che in uno dei macachi erano rimaste tracce del virus all’interno del naso». Quindi la questione è che va trovata la giusta dose del vaccino. Inoltre, ha spiegato che il test clinico sui 510 volontari sani «sta procedendo nel migliore dei modi non si registrano problemi». (agg. di Silvana Palazzo)
IL VACCINO DI OXFORD HA UN PROBLEMA?
Bill Haseltine ha scritto un articolo su Forbes parlando delle criticità del vaccino da Coronavirus, allo studio presso Oxford: una ricerca parallela rispetto alla ricerca della SinoVac, ma entrambe stanno lavorando sui macachi e sostengono che il vaccino protegga effettivamente questi esemplari di scimmie (il cui nome corretto sarebbe macaca mulatta, o macaco rhesus) dall’infezione dopo essere stati esposti al Covid-19. Haseltine però ha preso in esame alcuni di questi risultati, e quanto scrive lascia intendere che si possa fare ancora di più per trovare la formula giusta. Andando per gradi, e provando a “scremare” da qualche spiegazione eccessivamente tecnica o “medica”, il vaccino che si sta studiando a Oxford è il ChAdOx1 nCoV-19. Ebbene, il problema riportato dall’articolo riguarda il fatto che tracce di RNA virale sia stato trovato sia sui macachi vaccinati che su quelli non vaccinati.
I DUBBI DALLA SPERIMENTAZIONE SUI MACACHI
Ora, questo significa che le scimmie possono risultare positive al Coronavirus anche dopo l’assunzione del vaccino, che è appunto quello che sarebbe utilizzato sugli essere umani. In più, Haseltine ha anche notato come il numero di anticorpi rinvenuto nel corpo dei macachi non fosse poi così alto. Nel dettaglio, sarebbe un risultato ideale se l’attività antivirale fosse notata anche diluendola fino a migliaia di volte, ma nel caso delle scimmie oggetto del test questa attività è scomparsa alla quarantesima diluizione. Detto questo, ci sono anche degli aspetti positivi: ovvero, due terzi dei macachi non vaccinati hanno mostrato chiari segni di pneumonia virale nel corso dell’autopsia, mentre nessuno dei vaccinati ne era risultato infetto. Dunque, la conclusione è che, se pure il vaccino non ha impedito al Coronavirus di infettare il campo, ha comunque portato ad un contagio molto meno grave rispetto all’assenza di esso.
Il che però è un risultato parziale, naturalmente: gli esseri umani infatti potrebbero essere contagiati dal Coronavirus nonostante il vaccino, con la “consolazione” di ammalarsi in una forma meno grave e probabilmente non mortale. “Il tempo ci dirà se questo sia il migliore approccio, io non ci scommetterei” ha detto Haseltine a conclusione del suo studio. Nel quale ha anche comparato il vaccino di Oxford con quello che sta studiando la SinoVac: qui non ha riscontrato la presenza di RNA virale sui macachi vaccinati, ma al termine dello studio si dice che non sia troppo corretto fare un paragone tra le due ricerche, perché i parametri che la SinoVac ha utilizzato sono diversi rispetto allo studio del ChAdOx1 nCoV-19 (per esempio a Oxford hanno inoculato i macachi nei due tratti – superiore e inferiore – dell’apparato respiratorio mentre la SinoVac ha utilizzato una singola inoculazione nella trachea, e ancora l’esposizione al virus in questo ultimo studio è stata meno potente per almeno la metà rispetto a Oxford).