Come noto l’incipit, all’art. 1, della nostra Costituzione recita che l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Poco dopo, ma sempre nei “principi fondamentali”, i costituenti del 1948 hanno voluto evidenziare come la Repubblica riconosca a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuova le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ne discende, quindi, che ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Nella corposa parte della nostra Carta dedicata, poi, nello specifico, ai rapporti economici si stabilisce che, ovviamente, il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Alla donna lavoratrice vengono poi riconosciuti gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Per favorire poi quella che oggi chiameremmo conciliazione vita-lavoro si sottolinea che le condizioni di lavoro devono consentire alla donna che lavora l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
Questi, e altri principi presenti nella Carta del ’48, erano, però, rimasti, parafrasando una fortunata espressione di un leader storico della Cgil come Giuseppe Di Vittorio, “fuori dalla fabbrica”. Perché vi entrassero si dovette aspettare il 1970 con l’approvazione della Legge 300 del 20 maggio in materia di “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”.
Per tutti, tuttavia, la nuova legge fu “Lo Statuto dei Lavoratori” fortemente voluto dai due ministri del Lavoro (entrambi provenienti dall’esperienza sindacale) che ne seguirono l’elaborazione ossia il socialista Giacomo Brodolini e il democristiano Carlo Donat-Cattin.
Cinquant’anni dopo viene da chiedersi, nonostante gli interventi correttivi succedutisi negli anni, l’attualità di quella legge e dello spirito con cui venne immaginata e costruita. Il mondo del lavoro, infatti, è, a prescindere dagli ulteriori recenti sconvolgimenti dovuti alla crisi del Covid-19, profondamente cambiato, così come la nostra società.
Basti pensare, rimanendo sempre nel campo del lavoro, com’è profondamente mutato il rapporto con l’adesione a un sindacato. È venuta, infatti, progressivamente meno la scelta ideologica e politica e, probabilmente, anche le opzioni in campo sono meno alternative tra di loro di quanto lo potessero essere decenni fa.
Il momento complesso che stiamo vivendo non potrebbe, insomma, diventare un’opportunità per una riflessione (possibilmente seria) per ragionare di un Nuovo Statuto dei Lavoratori (o dei Lavori) che faccia entrare i “sacri”, e sempre attuali, principi della nostra Costituzione nelle “fabbriche” (smart?) del terzo millennio?