Twitter e il presidente americano Donald Trump ieri se le sono cantate e suonate. Negli Usa non è l’eccezione, ma la regola nei rapporti fra la Casa Bianca e i “media”. Il Watergate è da tempo un pezzo di storia americana, un caso di scuola di come la libertà di stampa è architrave della più antica democrazia del mondo. Lo scambio di bordate di ieri, peraltro, non ha attinto i toni epici della battaglia fra il Washington Post e Richard Nixon. E non è scaturito con il primo scoop di una serie, alimentata da una “gola profonda” che dava notizie (vere).
Tutto è cominciato allorché Twitter – piattaforma di comunicazione social prediletta da Trump – ha segnalato come “potenzialmente fuorviante” un cinguettìo del presidente che lanciava l’allarme frode sui sistema di votazione per posta. Il tema è di attualità sempre più calda negli Usa in vista delle presidenziali di novembre, che potrebbero svolgersi con il coronavirus ancora in circolazione. I democratici – anche sulla scia di sondaggi virati in favore di Joe Biden – premono perché si tengano comunque: anche con il ricorso massiccio a sistemi alternativi (benché le recenti primarie “dem” in Iowa abbiano dimostrato la generalizzata debolezza infrastrutturale del voto negli States). Trump continua invece a non escludere un possibile rinvio del voto.
Questo premesso, Twitter ha rinviato i lettori a una propria pagina intestata, “scopri i fatti relativi al voto per corrispondenza”, che andava a correggere le affermazioni di Trump come sostanziale fake news. La reazione della Casa Bianca è stata particolarmente violenta: Twitter è stata accusata di voler manipolare l’elettorato americano e nel mirino di Trump sono finiti tutti i social media che già nel 2016 avrebbero “tentato e fallito” di fermare la sua vittoria presidenziale. Di qui la minaccia di “far chiudere” le piattaforme e la nuova escalation polemica contro l’insofferenza del presidente verso le critiche, in particolare quelle che prendono di mira la veridicità delle sue affermazioni.
Twitter ha difeso i suoi standard anti fake-news (applicati peraltro per la prima volta alla Casa Bianca) ma ha rifiutato di rivelare dettagli sulla costruzione della pagina-algoritmo che ha fatto scattare l’alert.
Vi sono pochi dubbi sul prosieguo della vicenda: Twitter continuerà a pubblicare i suoi “alert” contro Trump e il presidente continuerà a difendersi strepitando. Poi alle presidenziali – si tengano o no a novembre – si vedrà se gli americani concederanno un secondo mandato a The Donald. Il quale potrà, nel caso, pensare di metter mano alle enormi posizioni dominanti dei giganti della Silicon Valley: anche l’antitrust è un caposaldo della democrazia di mercato americana e da tempo la Rete non è più guardata come simbolo della libertà americana esportata nel mondo.
Nel frattempo difficilmente cambieranno i rapporti correnti fra Twitter e un altro presidente: quella della Repubblica Popolare di Cina, Xi Jinping. Twitter in Cina è inaccessibile da molti anni. Niente “tweet” lanciati da Zohngnanhai, il quartier generale del “paramount leader” di Pechino. Niente dibattiti “social”, niente “fact-checking”, niente “alert” in maiuscolo blu (meno che mai su un oscuro focolaio epidemico scoppiato in una remota regione interna). Neppure minacce di chiusura: già fatto. Tranne che a Hong Kong: per ora. Una vicenda – quella dell’ex colonia britannica minacciata di definitiva annessione alla “mainland” cinese – che continua a preoccupare molto Trump: soprattutto su Twitter. La piattaforma in Europa funziona bene come in Usa, ma di questi tempi è pressoché silenziosa sui rischio di soffocamento delle libertà individuali a Hong Kong; e anche sul persistente bando dei social media in Cina.