Caro direttore,
nella mia scuola, l’Itis “Galilei” di Arezzo, abbiamo attivato la didattica a distanza mantenendo il normale orario di 32 lezioni settimanali, con la stessa successione quotidiana di discipline. Questo ha offerto a tutti noi un senso di continuità, pur nel caos del cambiamento. E ha dato un ordine alle cose, favorendo la partecipazione. Solo il coinvolgimento di tutti i docenti poteva garantire le lezioni a tutti gli alunni. Non uno escluso: 1.600 circa. Poi abbiamo ridotto la durata di ciascuna lezione: 35 minuti, anziché 60.
Ormai il funzionamento è a regime e potremmo andare avanti a lungo. Ma c’è qualcosa che non va.
“Fare scuola” non è solamente tenere lezione agli alunni. Tanto meno, se questi ultimi sono connessi telematicamente. La classe è un sistema aperto, diverso dalla somma delle sue parti (alunni e docenti), denso di relazioni che si manifestano nella fisicità. È una collettività unica con proprie caratteristiche, che difficilmente può vivere sul crinale scivoloso del Wifi.
Le classi sono anche ambienti. Non a caso, nel linguaggio comune, il termine “classe” comprende anche il significato di “aula”. “Andate in classe!”, si dice agli alunni nel corridoio. I giovani, dunque, vivono in un’aula (talvolta in più di una), in palestra, nei laboratori, ecc. Come suggerisce lo psicologo Edgar Schein, la vita a scuola è fatta anche di quegli spazi, dei loro arredamenti (talvolta malridotti), di tutte le strumentazioni, ecc.
Nelle aule, inoltre, ha luogo quel processo che chiamiamo educazione, dal latino ex ducere. Significa “condurre fuori”, nel senso di guidare il giovane a superare la cultura ascritta, quella che ciascuno eredita dalla famiglia. Crescere vuol dire, infatti, comprendere i particolarismi che hanno caratterizzato l’educazione familiare, per acquisire, intellettualmente, una distanza da essa. Spesso i giovani tornano ad “abitare” la cultura originaria, ma dopo aver fatto proprio il “sentire” interiore degli adulti. Solo guardando noi stessi dall’esterno, comprendiamo chi siamo. Senza questo allontanamento, non si creano i valori di cittadinanza e si rimane ancorati ad un pensiero dominante: quello dell’interesse, proprio e dei congiunti. Il mondo del “familismo amorale”.
La separatezza degli ambienti scolastici da quelli casalinghi favorisce il percorso di allontanamento dalle logiche familistiche.
Per i bambini la didattica a distanza funziona molto meno, anche perché la scuola primaria era del tutto impreparata. Per contro, il ruolo educativo delle famiglie è tornato ad essere centrale: spesso sono i genitori a dare spiegazioni ai figli. Nel migliore dei casi, affiancando le maestre. Ma le famiglie non sempre sono all’altezza. Si riproducono così i dislivelli tra chi ha la fortuna di avere una mamma colta e chi no. Quei dislivelli, in futuro, si riverseranno nella vita lavorativa e sociale.
La scuola, infine, è un luogo dove si socializza: si impara cioè ad essere uguali agli altri, nel gruppo, per praticare poi la diversità, scoprendo la propria individualità. È anche il luogo dell’educazione sentimentale, che – ci avverte lo psicologo Philip Zimbardo – avviene in presenza fisica e non può essere sostituita dai format pornografici dei siti in cui molti giovani navigano.
La didattica a distanza non è la vita reale della scuola.
Per queste ragioni occorre preparare il ritorno in classe. Prudentemente, ma con determinazione e senza perdere altro tempo.